BERLUSCONI COME AL CAPONE. Condannato per frode fiscale. La parabola politica discendente di una figura che ha marchiato a fuoco gli ultimi 18 anni del panorama politico italiano durante i quali, molto spesso, ha imposto i suoi tempi e dettato le proprie condizioni. Osannato e criticato, ieri ha fatto appena in tempo a cedere lo scettro ed abiurare a favore del rinnovamento interno che già oggi è passato dall’osanna al crucifige con una condanna che, comunque vada, bollerà la sua uscita di scena da leader di partito contrassegnando il tramonto di una esistenza politica copiosa di episodi assai discutibili, in contesa tra grandi capacità comunicative e abilità a vendere sogni, e difesa strenua ed incondizionata di interessi personali e rendite di posizione, poi estese ai vassalli alla corte del re. Sul punto è doveroso informare che la condanna in primo grado a 4 anni di reclusione e la pena accessoria dei 5 di interdizione dai pubblici uffici hanno ancora tempo di aspettare, congelate per effetto dell’efficacia solo dopo la fine dei tre gradi di giudizio e del relativo esito processuale.
Il che potrebbe, a ben vedere, suonare come una ulteriore beffa per avversari politici e contendenti ideologici i quali non potranno vedersi intestata la paternità morale di averlo scalzato dallo scranno del potere, quasi fosse una sorta di onanismo pleonastico. Ecco che allora di tempo ce ne vorrà, e parecchio, perché Berlusconi non possa più mettere piede in parlamento. Ma al netto dell’evidenza giudiziaria, certo è che lo smalto è stato intaccato, il prestigio scalfito, la credibilità compromessa. Berlusconi ritrae i remi in barca mentre il partito è alla deriva, il consenso – anche personale – in crollo verticale e, per di più il vento, se non quand’ anche la bora dell’antipolitica, soffia sempre più impetuosamente sui vecchi monoliti della seconda-terza repubblica. Una débacle che fa starnazzare ai maggiorènti il si salvi chi può. E c’è già chi s’organizza. Chi rinnega e prende le distanze. Chi si scuda dietro il “io l’ avevo detto che prima o poi finiva male”. Un fatto appare bizzarro.
Quasi la pena del contrappasso, che in epitaffio, più o meno potrebbe echeggiare così : dove non poté la mafia, tra Mangano e Dell’Utri, riuscì il fisco. Perché ad incastrarlo, impietosamente, ci hanno pensato i numeri. Quegli stessi conti che ha cercato di occultare, così come ravvisato dai giudici, alla fine, gli hanno intimato la resa. Che egli ha dovuto convenire non già per quieta obbedienza ma più perché imposta da quella magistratura che non è riuscito, nonostante ogni sforzo, ad assoggettare. Perché diversamente da quel che proferì Al Capone, il collegio giudicante, con tutta evidenza, non è stato “ tutto chiacchiere e distintivo”.
1 commento
sandro spanò
27 ottobre 2012 a 20:03 (UTC 2) Link a questo commento
si arripemntiu non e beru nenti torna e voli mu cumanda piu di prima