UNA VOLTA LA PERSONA PERBENE non era simpatica. Così come il perbenismo. L’ipocrita ossequioso dell’uniformità non esiste quasi più, perché sono scomparse le norme convenzionali dell’etica e della compostezza. I conformisti erano imitatori di un modello di comportamento ispirato a una visione gerarchica e piramidale della società: sembrare una persona perbene ed essere una persona perbene è sempre stata la stessa cosa.
Più si saliva di rango, più si era deferenti al sistema di valori vigente. Per questo il conformista era fisiologicamente conservatore e spesso retrivo. Pur essendo figura media e comune credeva di possedere gli strumenti per distinguersi, e non a caso era una persona distinta. Ogni gradino che portava ai piani alti della società richiedeva una maggiore osservanza del galateo del gentiluomo e questo comportava l’acquisizione di nuovi ferri di bottega, di mezzi con i quali esibire la sua promozione. In poche parole l’iconografia della persona perbene non era un’immagine immobile, si perfezionava acquistando privilegi. Nei tempi andati saper snervare la carne presupponeva non soltanto forchetta e coltello adatti all’occasione, ma carne e non fagioli nel piatto. E anche quando il fagiolo galleggiava nella scodella del ben educato non doveva essere succhiato dal labbro ma agguantato discretamente per non disturbare gli altri commensali. Non a caso le regole del comportamento conveniente erano definite “buone maniere”: insieme con l’abito della domenica gli zelanti seguaci di Monsignor Della Casa indossavano i modi dell’uomo ideale del Rinascimento, un prototipo che mimava, e spesso correggeva, l’aggraziata e comoda vita del Principe. Le vestizioni di papi, re e toreri sono ritualizzazioni di tutta un’enciclopedia formale dell’autorità. Quando poi, con l’irruente emersione della classe borghese si è trattato di «far funzionare» sul piano sociale queste pompose cerimonie, imporle come modello per tutti, ecco re e principi tenere lezioni pratiche ai cortigiani: «andate e diffondete la dottrina».
Oggi quelle buone maniere ci sembrano esagerate e perfino ridicole. Basta pensare che corridoi e sale del castello di Versailles erano disseminati di putride feci. Non c’erano le toilettes e i cortigiani erano costretti a comportarsi come i cani. Però il pomo dei loro bastoni conteneva essenze profumate e i nobili, parlando tra loro, lo scuotevano con aria disinvolta sotto il naso per rinfrescarsi le narici. L’odore del gelsomino copriva l’afrore terribile di quegli ambienti, come più tardi l’abito e il comportamento di una persona dell’onorata società celavano il più brutale degli assassini. Basta pensare che un arbiter elegantiarum degli albori borghesi, un cortigiano dei cortigiani, che veniva nominato «porte-coton», sapeva rinunciare elegantemente alla propria intima dignità in favore del prestigio del re e con un batuffolo di cotone in mano si chinava alle sue spalle per nettargli il sedere: un privilegio di chi era tanto educato da permettersi il lusso della trasgressione per rendere cerimonioso omaggio all’autorità. Storicamente la persona perbene imitava l’alto, si mascherava a immagine e somiglianza di chi elegante era per eredità o per grazia ricevuta, per essere degno di mangiare alla sua tavola e dormire nei suoi letti. La popolaglia affamata e ignava era affogata nel silenzio della storia. È stato così per secoli, poi, avvicinandoci ai nostri giorni, la persona perbene ha smesso di rivolgere gli occhi ai potenti. Non imitava più l’alto per identificazione, ma voleva distinguersi dal basso per negazione. All’inizio desiderava essere qualcosa, poi ha voluto non essere qualcos’altro. Arriviamo così, con un bel salto, ai contadini che diventano cittadini, cioè alla piccola borghesia.
Nasce la persona perbene piccolo borghese. Il piccolo borghese non grida «sono, sono!» ma «non sono, non sono!». Il figlio del contadino parla “ciovile”. Il colletto rigido e inamidato non poteva essere del villano piegato sulla zappa, era di persona perbene e di concetto, anche se in tasca non portava il becco di un quattrino. La mano di uno zotico travestito, ancora negli anni Cinquanta e Sessanta dell’altro secolo, si presentava così: polsino bianco – le camicie si vendevano con ricambio di colletti e polsini – dorso e palmo lisci, le dita chionze, pesante anello dorato con pietra quadrata, unghia del mignolo lunghissima, a punta e tenuta pulita con fiammiferi, stecchini e vari oggetti aguzzi. L’anello e l’unghia sproporzionata dovevano informare che il possessore di quella mano non faceva lavori pesanti: nel lavoro dei campi una tale unghia non sarebbe durata a lungo. Più che il potere reale era l’immagine del potere che interessava costoro, come se l’abito facesse il monaco. Intorno a questo modo di concepire il proprio ruolo sociale, si è formato ciò che per molti anni è stato chiamato l’italiano medio – che non poteva non essere perbene – con diverse sfumature a seconda dell’istruzione e dei mezzi economici. L’etichetta si costruiva sui residui degli autentici valori della cultura contadina: la religione, la famiglia, la terra-patria. Il sogno fascista è stato di un’Italia virile, tutta piccolo borghese, senza la villania dei dialetti.
Ma dal boom economico in poi di quella cultura non è rimasto più niente. Ne è scomparsa perfino la memoria. Un individualismo confuso, faticoso e contraddittorio è il segno più vistoso dello smarrimento. Il cittadino è spaventato dalla prospettiva di perdere i suoi connotati e i suoi punti di riferimento comportamentali nella nuova società di massa, anomica per definizione. Nel magma dei nuovi tempi, in piena esplosione semiologica della realtà, l’individualista ha urgente bisogno di un abito che lo renda riconoscibile e “unico”, di persona distinta. Se ne costruisce uno inedito, sempre in negativo, anzi l’esatto rovescio dell’abito vecchio: la persona perbene si traveste da persona permale. Il cane bastardo assurge a cane di razza. Alterità e diversità sono i nuovi miti. Ma poiché l’intera società italiana non possiede più alcuno zodiaco di riferimento e chiama i singoli individui a cercarsi un modo di vivere senza modelli da imitare, anche il più stravagante e transfuga dei cittadini finisce per essere un conformista. In un mondo scandaloso nulla fa scandalo. E non c’è niente di più vacuo che opporsi a uno schema di vita che non esiste più. Con la scomparsa del conformista sparisce l’anticonformista. Ai nostri giorni, per definire una persona perbene, non bisogna riferirsi alla società e alle sue non-regole. Non esiste come categoria sociale, è persa nel mare magnum di un’Italia onnivora e multiforme. È appartata, si nasconde tra la folla anonima orientandosi con una bussola personale che la guida sui sentieri della sobrietà e dell’onestà, morale e intellettuale. Rifiuta i pregiudizi e fraternizza solo con chi ha rispetto di se stesso e partecipa serenamente al bene comune. Agisce rettamente secondo coscienza, non obbedisce a nessun codice e per questo non è riconoscibile. La persona perbene è l’unico cittadino anticonformista, quello che un tempo avremmo chiamato il vero rivoluzionario.