• L’horror italiano, un genere scomparso. Argento e gli altri, molti film che hanno influito sulla cinematografia
    09/07/2013 | Filippo Mammì | Edicola di Pinuccio

    cinema1LE DOMENICHE ESTIVE, quando non ci si trova al mare, possono risultare lunghe; e, durante questi lassi di tempo, penso soprattutto alle idee per aggiornare il blog! Rovistando su Internet, avevo saputo dell’ultimo film di Federico Zampaglione Tulpa, un altro omaggio del leader dei Tiromancino al cinema horror italiano, il secondo dopo la rivelazione Shadow di due anni fa. Non ho ancora colto l’occasione per vedere i due film, causa lavoro, ma i Tiromancino sono tra i miei gruppi preferiti e a priori penso si tratti di due pellicole interessanti. E poi, finalmente ho la scusa per parlare di un genere che ho amato e amo tuttora: l’horror italiano. Sebbene buona parte dei film di terrore del Belpaese li ho scoperti durante l’adolescenza, da bambino l’horror erano per me i manifesti, le locandine fuori dall’ingresso del cinema che, fino ai primi anni Novanta, erano disegnati ed accendevano immediatamente la fantasia dello spettatore da risultare, a volte, più belli persino del film reclamizzato. Non potendo certo vedere i film, poiché mia madre voleva evitarmi incubi notturni, mi deliziavo ad immaginare le situazioni più terrificanti tramite le locandine, appunto, ed i trailer che vedevo in tv.

     

    Quelli di vent’anni fa erano magicamente emozionanti, grazie ad un montaggio sapiente che annullava le scene noiose ed alla geniale trovata di inserire alla fine lo stesso manifesto del film, risultando la classica ciliegina sulla torta che aggiungeva quel qualcosa in più per divertirsi o inquietarsi; i trailer odierni durano una manciata di secondi che non lascia neppure il tempo di intuire la trama o addirittura i protagonisti. Tramite quelle immagini di pochi minuti, entravo in un mondo di paure ancestrali, irresistibili per la mia adrenalina. Ma si trattava soprattutto di horror americani in quanto, alla fine degli anni Ottanta, l’horror italiano era ormai entrato nella sua fase calante e non riesco a ricordare neppure un trailer di qualche film di paura italico, eccezion fatta per Dove comincia la notte (1990) di Maurizio Zaccaro, un thriller oggi di culto che all’epoca era stato fatto passare per un horror, ma, a parte l’atmosfera, non lo è affatto. Durante l’adolescenza, ho scoperto che il cinema di genere italiano non era solo Fantozzi, Bud Spencer e Terence Hill, Franco e Ciccio o gli spaghetti western, era anche un universo popolato da vampiri, zombi e demoni, mescolati insieme in un modo che solo gli italiani sapevano fare e che gli stessi americani hanno apprezzato negli anni.

     

    cinemaA parte Dario Argento, che resta il genio indiscusso dell’orrore e che ormai è l’unico ad occuparsi ancora di spaventare il pubblico, non sapevo che esistessero anche altri registi horror nel nostro Paese, ma il problema è presto detto: mentre Argento, nel corso della propria carriera, si è occupato unicamente di thriller/horror spaventosi, gli altri registi hanno spaziato per anni nei generi più diversi o lontanissimi dall’horror, soffermandosi sul sangue e il terrore solo per lo spazio di poche pellicole. Mai avrei potuto immaginare che Lucio Fulci, oggi riconosciuto maestro dello splatter, avesse diretto negli anni Sessanta una sostanziosa fetta dei film di Franchi e Ingrassia, per giunta quelli che apprezzavo di più a dieci anni. E che dire di Lamberto Bava, autore della celebrata saga fantasy della tv italiana anni Novanta, Fantaghirò, che scoprii essere l’artefice di Demoni (1985) e Demoni 2 (1987), tra gli horror commerciali italiani più famosi all’estero, evidenti fonti di ispirazione per Tarantino e Rodriguez nel film Dal Tramonto all’alba? Dei film horror italiani ricordo tante citazioni (dei titoli, più che altro) alle medie, soprattutto per La chiesa (1989) di Michele Soavi (anche lui passato da tempo a tutt’altri argomenti), cult dei ragazzini della prima metà dell’ultimo decennio del Novecento, o la stessa serie dei Demoni, ma nessuno nominava mai i registi, anzi si dava per scontato che i film con effetti speciali fossero prerogativa degli americani.

     

    Grazie a Tarantino, sempre lui!, i nostri horror sono stati riscoperti in Italia, dopo essere stati troppo frettolosamente messi nel dimenticatoio; e registi come Riccardo Freda, Mario Bava, Antonio Margheriti, Lucio Fulci, Sergio Martino, Lamberto Bava, Ruggero Deodato e Michele Soavi sono tornati magicamente alla ribalta, conosciuti e apprezzati magari da chi, fino a qualche anno prima, non li considerava proprio. L’horror italiano è stato certamente il genere cinematografico più bistrattato al mondo: considerato per troppo tempo di derivazione (e in parte lo era), ridotto alla stregua di un accozzaglia di frattaglie sanguinolente e spaventi gratuiti, negli ultimi vent’anni è stato rivalutato come settore di tutto rispetto. In fondo, i detrattori avevano comunque una parte di ragione, perché nel cinema italiano vi è sempre stata, in tutti i generi, una certa tendenza all’eccesso, al bisogno di gettare una trovata grossa nel bel mezzo dell’azione per impressionare il pubblico. Anche il cinema horror nostrano ha seguito questa tendenza con il suo sangue a fiotti, le budella che saltano fuori anche quando non ce n’è bisogno, i suoi zombi sporchi, marci, probabilmente puzzolenti; voleva colpire per prima cosa lo stomaco dello spettatore e poi, eventualmente, spaventarlo. Non è un espediente giusto, secondo me, ho sempre creduto che la paura e il disgusto non possono andare d’accordo, perché il dettaglio ributtante può anche starci, ma se non c’è l’atmosfera, il giusto equilibrio a sorreggere tutto, l’azione orrifica va a farsi benedire; anche nei racconti di Edgar Allan Poe c’è l’effetto sanguinolento, ma esso è accompagnato da un immaginario romantico – funereo che angoscia lo spettatore sin dall’inizio.

     

    I film horror italiani, non tutti, non hanno mai seguito questa regola. Ma alcuni registi talentuosi sono comunque riusciti a fare paura, nel senso letterale del termine.Lucio Fulci, ad esempio, era abile nell’orchestrare effettacci insieme a scene di pura angoscia, forte delle sue letture di Lovecraft e Matheson: nei film che ha prodotto tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta, tra cui L’aldilà, Zombi 2, Paura nella città dei morti viventi, Quella villa accanto al cimitero, è riuscito ad unire un suo particolare gusto per il disfacimento del corpo e la violenza (da cui il soprannome “poeta del macabro e della crudeltà” affibbiatogli dai critici francesi) con la costruzione di situazioni paradossali quanto terrorizzanti, infischiandosene delle regole di genere o addirittura creandone di nuove. Lo scoprii nel 1998, grazie alla serie “Notte Horror” di Italia Uno, proprio con L’aldilà, anche se passò la versione tagliata, che mi spaventò al punto da dormire completamente avvolto nelle lenzuola fino ai capelli, a 17 anni ed in pieno agosto! Ma anche il supremo Argento non mi fece dormire per tre notti, a 15 anni, quando vidi quel capolavoro nevrotizzante che è Profondo Rosso (1975). E mi ricordo un’altra notte di 13 anni fa, quando misi la sveglia alle quattro di mattina per registrare su cassetta Phenomena (1985), un altro suo ottimo film che Raiuno trasmetteva a quell’orario. Non mi dilungo su Dario Argento, tanto è conosciuto ed apprezzato in Italia e all’estero (viene citato nei dialoghi del film Juno), preferisco una carrellata su altri registi italiani di horror meno ricordati. Tra questi c’è da menzionare Pupi Avati, proprio il regista di buoni film drammatici, ma che aveva iniziato la sua carriera come film-maker di horror, opere personalissime in cui il terrore nasce da una riuscita commistione tra grottesco, orrore e quotidiano, con risultati da vedere per credere come in La casa dalle finestre che ridono (1976) e Zeder (1983), in cui l’Emilia Romagna, terra del vino e delle belle donne, diventa un luogo mostruoso dove si agitano fantasmi rimossi e crudeltà di provincia (come nei film “normali” di Avati, il passato è un’ossessione che ritorna). Anche Umberto Lenzi, abile regista di poliziotteschi e action movie, ha praticato a volte incursioni non proprio eccelse nell’horror, girando Incubo sulla città contaminata (1980, praticamente rifatto da Robert Rodriguez in Planet Terror e citato da Danny Boyle in 28 giorni dopo), La casa 3 (1988), La casa del sortilegio (1989) e La casa delle anime erranti (1989), gli ultimi due girati per la televisione; film che, pur avendo qualche trovata geniale, dimostrano che l’horror non è mai stato nelle corde del regista toscano, troppo avvezzo ai luoghi comuni dei film di paura. Come non è mai stato in quelle di Claudio Fragasso, artefice della mini saga Palermo – Milano, sola andata e Milano – Palermo, il ritorno e regista di quel Troll 2 (1990), eletto da un gruppo di appassionati in America “peggior film horror mai girato”, con dibattiti organizzati ogni anno e prese in giro su Youtube.

     

    Ma forse i peggiori horror italiani sono quelli di Bruno Mattei, scomparso recentemente, regista di perle come Virus, l’inferno dei morti viventi (1980), Rats, notte di terrore (1984) ed autore di una serie di “direct – to – video” (film girati direttamente per il Dvd) girati negli anni 2000, in cui Mattei cercava di rifare horror con lo stesso stile e ritmo degli anni Settanta, inutilmente perché quei film non possono più essere prodotti, in quanto non funzionano più nello stesso modo a causa di un pubblico più smaliziato rispetto al passato che ha bisogno di ben altro per spaventarsi. A salvare i film di Mattei, un certo umorismo fumettistico ed una sana presa in giro dei canoni orrorifici. E’ triste dover constatare che nell’horror italiano sia rimasto solamente Dario Argento a dirigere, il futuro del nostro horror resta aggrappato alle sue mani, anche se, da poco, alcuni di quei registi superstiti stanno progettando di ritornare a quel genere. Si spera, intanto continuiamo a riscoprire i reperti di una stagione irripetibile del cinema italiano.


     
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