Per motivi di lavoro mi vedo costretto a scrivere per l’Edp di rado, anche perché mi sono definitivamente arenato sull’idea di pubblicarci solo recensioni di pellicole poco conosciute che, se fossero state girate meglio, avrebbero avuto maggior fortuna. Non crediate che sia facile rintracciare film che nessuno conosce, perché grazie ad Internet le persone sono molto più informate rispetto al passato ed anche su Youtube compaiono all’improvviso opere filmiche che sembravano dimenticate. Preferendo poi di gran lunga i film italiani, l’impresa si dimostra ancora più ostica essendo molti film degli anni Settanta, per esempio, invisibili per motivi di diritti o di home video. Stavolta, parlerò di un film che, al di là delle reali intenzioni dei suoi autori, è uscito fuori dalla carreggiata risultando persino ambiguo: Lo scugnizzo (1978) di Alfonso Brescia. Lo scugnizzo è una pellicola marchiata dall’ambiguità, ma è anche introvabile: sono più di trent’anni che non è mai stato trasmesso in televisione, neppure dai canali specializzati in B – movies, è uscito forse solo una volta in videocassetta. Un paio di anni fa era stato ritrovato e pubblicato integralmente sul sito Trashopolis.com (vi consiglio un giro in questa miniera d’oro di film e programmi tv/radio che il mainstream non vi mostrerà mai) e di conseguenza sull’account Youtube degli autori (io stesso l’ho scaricato da lì), ma adesso risulta rimosso. Il film rientra in un pacchetto produttivo, finanziato da Ciro Ippolito, che comprende, oltre all’opera citata, anche L’ultimo guappo, Napoli serenata calibro 9, Il mammasantissima, I contrabbandieri di Santa Lucia, Napoli…la camorra sfida, la città risponde, Zappatore, Carcerato, I figli so piezz’e core ed altre pellicole, dirette tutte da Alfonso Brescia ed interpretate da Mario Merola, tranne Lo scugnizzo. I film, usciti nelle sale tra il 1978 e il 1981, sono stati in pratica girati contemporaneamente oppure uno di seguito all’altro, dopo averne abbozzato e scritto le sceneggiature in pochi giorni, come ha raccontato Ippolito, autore lui stesso di buona parte dei soggetti. Bisogna riconoscere a questi film il merito di aver mescolato la sceneggiata napoletana (con tutti i topos del caso) con il genere “poliziottesco”, che all’epoca andava per la maggiore in Italia; il risultato sono queste trame volutamente anacronistiche, dove assieme alle situazioni tipiche della sceneggiata (tra cui quella più abusata: Isso, essa e o malamente) convivono rapine efferate, inseguimenti e omicidi sanguinosi.
E, ovviamente, non mancano neppure le pause canore, con Merola che in qualsiasi momento si lancia ad eseguire un brano del suo repertorio, persino in mezzo ad una sparatoria! Inutile dire che, tra tutti i film, quelli che ebbero più successo erano le pellicole con una trama poliziesca, mentre quelle senza neppure un accoltellamento risultavano particolarmente noiose, perse tra drammi sentimentali e piagnistei. Ecco, Lo scugnizzo rappresenta un’eccezione: per prima cosa, è l’unico tra le direzioni di Brescia (scomparso nel 2001) in cui non compare Merola e non si sente neppure una sua canzone; secondo, non è appunto una sceneggiata pervasa da umori polizieschi. Eppure non annoia. Come da titolo, riprende la figura di Gennarino, tipico esempio di scugnizzo napoletano, che come tale è sempre apparso in varie sceneggiate ed anche in film ambientati nel capoluogo campano sin dagli anni Venti. In questo caso, il film si ricollega a due famosi polizieschi in salsa napoletana, Napoli violenta e Napoli spara!, usciti tra il 1976 e il 1977, in cui compariva appunto questo ragazzino che doveva mostrare il lato buono del popolino napoletano, che riconosce l’autorità dei commissari protagonisti e li rispetta.
Questo personaggio fu ripreso da Brescia nei polizieschi – sceneggiata Napoli serenata calibro 9, I contrabbandieri di Santa Lucia e Il mammasantissima in cui fu interpretato dal piccolo Marco Girondino, il quale ritorna nello Scugnizzo diventandone il protagonista assoluto da spalla meroliana che era (e si può dire che il film non sia altro che lo spin – off dei tre citati prima, anzi, con I contrabbandieri di Santa Lucia ha molti punti in comune). Il film, tra quelli diretti da Brescia, sembra essere il più genuino nella trama e nella caratterizzazione dei personaggi; una storia vera e propria non c’è, la struttura è quella della narrazione episodica, uno stratagemma che spesso è adoperato per non incorrere nei buchi di trama, un rischio sempre in agguato in questo genere di film girati in poco tempo. A ogni modo la trama è questa: Gennarino vive in un basso del centro storico di Napoli con la mamma adottiva Angela, un’ex cantante caduta in disgrazia (perché è caduta in disgrazia? Come è successo? Non si sa) e il cane Barone; i due si esibiscono come artisti di strada insieme ad altre persone, ma Angela è molto malata (di un’indefinita malattia) e non può più cantare o recitare. Visto che i soldi sono pochi, Gennarino andrà incontro a molte peripezie malavitose per poter comprare le medicine necessarie, ma tanto si capisce dal primo fotogramma che Angela morirà, tra le lacrime di Gennarino e impennate audio – vocali. Scusate lo spoiler, ma queste storie sono molto prevedibili; la genuinità del film risiede nella storia, che è molto meno anacronistica dei coevi film meroliani oltre a presentare meno luoghi comuni di quanto la trama richieda.
Sembra che gli autori vogliano puntare la macchina da presa sul disagio sociale che da sempre attanaglia Napoli, e alcuni suoi quartieri in particolare, raccontando non tanto la vita di un tipico scugnizzo, ma le concause che possono portare uno dei tanti ragazzini di strada partenopei a delinquere. Solo che lo fa nel modo sbagliato: nella sua foga di renderci simpatici tutti i personaggi (tranne le forze dell’ordine. Prima avvisaglia di ambiguità) finisce per renderli stereotipati (lo scugnizzo, la mamma dolce che si dispera, il cane piazzato lì per fare tenerezza o anche alcuni personaggi di contorno) e privi di qualsiasi interesse, anche perché la storia in sé non ha alcuna originalità. Ci sono sequenze che vorrebbero essere di denuncia, almeno così pare, come la scena all’ospedale in cui Angela si reca con Gennarino ai primi sintomi della malattia (tra l’altro, nei venti minuti iniziali stava benissimo senza alcun malessere) che in teoria vuole mostrare alcuni casi di malasanità (c’è pure uno spassoso cameo di Lucio Montanaro, nei panni di un degente che si lamenta in pugliese di quanto lo trattino male, che muore improvvisamente sotto un autobus, un momento choccante tenendo conto che prima si ridacchia di gusto mentre sta parlando) e si odono imprecazioni d’ogni sorta. Ma ce ne sono svariate altre che non si capisce cosa vogliano spiegare, come quella del ricettatore che sfrutta ladri bambini, nelle cui fila entra anche Gennarino, o del carcere minorile in cui finisce il protagonista (ha causato involontariamente la morte di un componente della sua banda) in cui i bambini sembrano fregarsene altamente del luogo in cui si trovano e solo Gennarino piagnucola per tutto il tempo (occhio alla scena del sogno, stucchevole e indigesta, in cui vede Angela sotto forma di Madonna di Fatima!).
Piccola curiosità: nella sequenza del teatrino carcerario c’è anche un bimbo che fa l’imitazione di Beppe Grillo. Ovviamente, Gennarino fuggirà con l’aiuto di un compagno e la polizia lo cercherà solo il tempo necessario per passare all’altro episodio; veramente, non lo cercano più fino alla fine del film e lui, ripeto, è finito in carcere per omicidio! Ancora, perché in questo film il protagonista viene sempre giustificato in ogni mala azione che commette? D’accordo, vuole riuscire a comprare le medicine per curare la mamma malata, ma per davvero tutto deve essergli concesso? La commozione che lo accompagna è totalmente forzata al solo scopo di far sentire in colpa lo spettatore più smaliziato che si è accorto che Gennarino è un delinquente minorile bello e buono; inoltre, ad un certo punto sembra delinquere solo per il piacere di farlo e per i soldi facili, quasi scordandosi di avere a casa la mamma a letto che deperisce. Tutto questo ha un effetto destabilizzante e produce anche un messaggio pericoloso.
Un’ultima cosa: è improbabile che un bambino finisca in un carcere minorile essendo il limite dell’età imputabile di 14 anni, mentre Gennarino deve avere tra i 10 e gli 11 anni, ma vabbè, questa è la logica dei film sgangherati. Vi è però un elemento originale: il personaggio del giornalista, interpretato da Gianni Garko, che a nome di una fantomatica trasmissione tv “Caos ‘72” gira per Napoli con un operatore intervistando gente in difficoltà e le stesse riprese vengono mostrate nel corso del film, ma i casi umani che documenta sembrano anticipare gli sketch di Ciprì e Maresco per Cinico Tv. Mi sono però dimenticato un piccolo particolare: forse non è del tutto vero che non ci sia qualcosa di poliziesco nel film perché nell’ultima parte c’è l’episodio di Gennarino e il boss dei contrabbandieri (seconda avvisaglia di ambiguità): Gennarino sembra ammirare profondamente i boss, tant’è che appena sente due marsigliesi progettare di far fuori un noto capo dei contrabbandieri, interpretato da Rick Battaglia, corre subito da lui per spifferargli tutto. Ovviamente, le sue parole porteranno ad una strage di trafficanti francesi, ma chissenefrega, è solo felice di aver aiutato i contrabbandieri che danno lavoro a tante persone. Infatti il boss lo premia con un lauto compenso. Ma stiamo scherzando? Veramente si arriva a suggerire che la camorra ha il cuore d’oro e aiuta i disperati mentre gli altri se ne fregano? Qui l’ambiguità è persino inquietante, sembra che Gennarino ottenga il massimo dell’aspirazione frequentando un boss e pare già pronto a diventare un killer spietato, vista la freddezza con cui assiste alla morte dei brutti e cattivi marsigliesi.
Forse è per questo che il film è introvabile. E arriviamo al finale, con la morte di Angela su un autobus che la dovrebbe portare all’ospedale, una sequenza che vorrebbe essere commovente, ma risulta solo sadica (la donna, agonizzante, viene fatta alzare dal letto, viene vestita e costretta a fare una rampa di scale a piedi, mentre è chiaramente più morta che viva). E qui c’è un altro elemento ambiguo: la povera Angela è l’unica, tra i personaggi del film, che si preoccupa di insegnare l’onestà a Gennarino, come tutte le mamme amorevoli, ed anche di farlo studiare a casa. Con la sua morte sembra andarsene anche l’unico barlume di civiltà di tutto il film, perché viene allegramente suggerito che Gennarino diventerà un galoppino della camorra, orfano sì, ma sempre con i soldi in tasca. In America direbbero “What the Fuck??” e non traduco. In definitiva, il film è gradevole da guardare, non è affatto noioso grazie ai molti cambi di registro, ma è troppo ambiguo nel suo messaggio palesemente a favore della malavita. Si può comodamente apprezzare come reperto d’epoca essendo una sceneggiata, ma è impossibile da rivalutare come film trash perché il sottotesto malavitoso è insistito in modo più pressante rispetto persino ai coevi film di Brescia con Merola, e non che quelli fossero meno espliciti nel glorificare i guappi. Il merito del gradimento va comunque solo agli attori, perché la regia è piatta e a volte scade nella volgarità: Angela Luce, nel ruolo di Angela (nomen omen), è convincente come solo una grande attrice di teatro sa essere e canta anche in una scena (è stata una delle migliori interpreti della canzone partenopea).
Purtroppo è penalizzata da un trucco che la imbruttisce e da una parrucca rossa da pagliaccio che il suo personaggio usa inspiegabilmente anche per farsi una passeggiata. Il piccolo Girondino è ottimo, spontaneo e molto simpatico, nonostante una certa negatività del suo personaggio. Per il resto, che dire, vedetevelo senza pregiudizi, questo film possiede comunque un certo fascino vintage, come molte altre pellicole dell’epoca.