HO AVUTO LA FORTUNA di conoscere Franco Scaldati alla fine del 2001 (forse era la prima metà del 2002) quando frequentavo il Dams dell’Università della Calabria, a Cosenza. L’occasione dell’incontro era, se ricordo bene, un seminario sull’arte teatrale organizzato dalla professoressa Valentina Valentini, docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo, al quale Scaldati era stato invitato dalla prof, autrice di una monografia a lui dedicata edita da Rubbettino, sulla quale aveva impostato il programma della sua materia che all’epoca stavo frequentando (e che dovetti studiare attentamente per l’esame!). Io, prima di allora, non sospettavo neppure minimamente dell’esistenza di questo fantomatico Franco Scaldati che, nelle foto in bianco e nero della monografia, mi sembrava una sorta di Babbo Natale triste; in fondo, si trattava dell’argomento che dovevo studiare per l’esame, non me ne importava nulla, però era lo sforzo necessario per vedere un altro esame passato sul libretto universitario. Per giunta, da gran presuntuosetto di 20 anni quale ero allora (adesso ne ho 32), amavo solamente il cinema, anzi, non me vogliano gli appassionati di teatro, consideravo il palcoscenico alla stregua di uno zombi che continuava a trascinarsi penosamente, dopo la nascita del cinema, per tutto il Novecento, superato ormai dalla magica macchina da presa.
Quel giorno non restai molto tempo a seguire il seminario, mi vergogno ad ammettere che me ne andai quasi subito perché era venerdì e stavo per perdere il treno per tornare a casa, a Reggio, dove avrei passato il weekend. Ricordo Scaldati dietro un’enorme cattedra di non so più quale aula, mentre prendevamo tutti posto, già seduto, con i gomiti sul tavolo, le mani unite vicino alla bocca e lo sguardo pensieroso; aveva un’aria un po’ trasandata e questo me lo rese subito simpatico, non aveva affatto l’aspetto di un intellettuale borioso che aspetta solo che tutti pendano dalla sua bocca, non sembrava l’uomo di teatro come lo immaginavo allora. Con ingenuità, pensai che comunque lo avrei rivisto un giorno da qualche parte in Italia, magari su un set cinematografico (quando ancora sognavo la carriera di cineasta) oppure ad un’intervista, come ho continuato a pensare una volta diventato giornalista. Il 1 giugno mi sono dovuto arrendere all’evidenza che un altro incontro, più lungo, con Scaldati non avverrà mai più: lo scrittore, attore e regista teatrale palermitano si è infatti spento sabato scorso, dopo una lunga malattia, all’età di 70 anni nella sua città.
La notizia non ha conquistato le prime pagine dei giornali nazionali, mentre ha dominato quelli siciliani, ovviamente; Scaldati, in Sicilia era considerato un altro Eduardo o un Dario Fo in sedicesimo, era sicuramente un originalissimo drammaturgo degno di miglior causa, anche se negli ultimi vent’anni si era fatto conoscere nel resto della Penisola, dopo aver vinto nel 1987 un premio a Riccione. Un mostro di teatro allo stato puro, autodidatta che ha preferito mettere in pratica la recitazione ed il teatro di strada senza bisogno di passare prima dai libri, un autore straordinario vincitore di ben due premi Ubu, il maggiore riconoscimento teatrale in Italia. Questo era Franco Scaldati e potrei anche fermarmi qui. Con la “Compagnia del Sarto” (così chiamata da un suo soprannome affibbiatogli da ragazzo quando cuciva i costumi di scena in una sartoria nel quartiere palermitano Borgo Vecchio) Scaldati aveva prodotto alcune tra le opere teatrali più originali di quarant’anni di teatro italiano, scritte sia in vernacolo che in lingua, che rappresentano le sue teorie sull’umanità, la ricerca di Dio e i dubbi ancestrali dell’esistenza: Il pozzo dei pazzi, Lucio, Totò e Vicè, Assassina sono poche opere, ma di una profondità e di una spazialità oltre il palcoscenico che sembrano più di mille. Scaldati prendeva ispirazione dal teatro di strada palermitano, quello che non aveva bisogno di scene e posti a sedere, ma quello itinerante, che recitava e viveva in mezzo alla gente, e dalla Commedia dell’Arte, osservando e copiando dalla vita, perché, diceva, imparare solo dai libri “è noioso”.
A prima vista, anche il suo teatro potrebbe sembrare noioso, sempre se di teatro si può parlare: basta leggere il testo di un suo qualsiasi dramma per essere catapultati in un mondo fuori dal tempo e dallo spazio, che sembra una cosa per tramutarsi un secondo dopo in un’altra. Leggendo il dialetto, il luogo potrebbe sembrare Palermo, forse ci troviamo tra i vicoli del centro storico dalle mille leggende e altrettanti personaggi, pazzi, miserabili ed emarginati che ci obbligano ad osservare il mondo con i loro occhi, ma quale mondo? Qualche rudere, un deserto indefinito su cui si staglia maestosa la luna. Un luogo – non luogo, che non dice nulla, ma riflette tutto, e l’improvvisazione (appunto, non ci si può basare solo sul “noioso” testo) coinvolge lo spettatore risucchiandolo in un vortice di sensazioni e paure mitiche. I personaggi di Scaldati sono gli emarginati dei quartieri poveri palermitani, quelli che, per ignoranza o menomazione, sono tenuti ai margini da una società ancora più ignorante che ha perso l’innocenza; non c’è bene o male nelle sue opere, solo tanti poveracci animati da passioni sotterranee, ma imbambolati in un nulla eterno che non porta da nessuna parte, dove solo frasi smozzicate e voci biascicate vanno a comporre gradualmente un puzzle in cui comunque non si comprende nulla, se non le supposizioni che ogni spettatore formula dentro sé.
I personaggi non rappresentano nessuno, sono astrazioni simboliche dell’uomo che non riesce più a vedere e a sentire “l’invisibile”, che ha rotto i contatti con il metafisico, o con Dio, e non sa più essere felice. E l’uso del dialetto non è un limite, come ha pensato qualcuno, ma solo un mezzo per accentuare ancora di più il senso di straniamento che pervade i protagonisti. Sicuramente, Scaldati era un autore che non forniva appigli con il reale, usava solo la favola e il mito per spiegare il suo mondo che comunque attingeva dalla vita quotidiana. Allestiva i suoi spettacoli al teatro Biondo di Palermo in cui faceva esibire i suoi attori presi dalle strade dell’Albergheria, il rione storico del capoluogo siciliano dove gestiva un laboratorio sperimentale; un autore astratto che però non poteva staccarsi dalla materia, appunto. Scaldati ha offerto un modello per molti altri autori teatrali ed anche registi cinematografici, come i celebri Ciprì e Maresco, autori di film controversi ma geniali, che dal suo teatro hanno sempre pescato a piene mani e che, nel 2004, gli hanno offerto un ruolo omaggio nel loro film Il ritorno di Cagliostro. Ma Scaldati si è trovato spesso a recitare al cinema, come dimostrano le sue partecipazioni a due film di Giuseppe Tornatore: L’uomo delle stelle (1995) dove interpreta un brigadiere col sogno del cinema e Baaria (2009) in cui compare solo in una scena. Ma aveva recitato anche in Kaos dei fratelli Taviani (1984). Insomma, un personaggio non certo di secondo piano. Ultima nota: all’esame di Storia del teatro e dello spettacolo, le ultime domande della professoressa riguardavano proprio Scaldati, a cui io, ormai apprezzandolo, diedi una mia piccola, personale interpretazione della sua poetica. Voto finale: 30. Grazie Franco, ovunque tu sia!