CATANZARO – L’approvazione della legge 92/2012, la cosiddetta riforma del Mercato del Lavoro, animatamente contrastata dalla Cgil ai vari livelli, comincia a mietere le sue vittime. E lo fa partendo da una regione, quale la Calabria, già martoriata da percentuali di disoccupazione oltremodo elevate, colpendo il settore dei call center in outsourcing, settore produttivo capace nell’ultimo quinquennio di dare stabilità e lavoro in questa terra. Entro la fine di quest’anno in Calabria, scadranno nelle varie aziende del comparto oltre cinquemila contratti a progetto, che a causa del contestuale mancato rinnovo del contratto delle telecomunicazioni, potrebbero non vedersi rinnovati. La cosiddetta “legge Fornero” che doveva contribuire a ridurre le tipologie contrattuali atipiche, e contestualmente favorire stabilità ai contratti precari, rischia, per l’assenza di contestuali politiche di crescita ed incentivazione alle aziende, di dare un duro colpo all’economia della regione. Una regione, quella calabrese, che vive di Call Center, potrebbe uscirne devastata ulteriormente da una norma che rischia di essere una mera enunciazione di principio senza contestuali politiche che permettano la messa in sicurezza del settore.
Sono oltre 200 milioni di euro i redditi distribuiti in Calabria dalle aziende che operano in questo distretto produttivo, ed oltre la metà proviene da forme di contratti precari. Solo questo dovrebbe bastare a far comprendere la gravità della situazione, cercando fattivamente di porre rimedio nel breve termine. Entrando nel merito della questione, la riforma del mercato del lavoro, diventata legge lo scorso agosto, impone il riconoscimento di un importo fisso per i lavoratori con contratti a progetto, rinviando al contratto collettivo di settore di riferimento la definizione del compenso. Ebbene ad oggi il contratto collettivo delle telecomunicazioni, scaduto da circa un anno, non ha avuto ancora rinnovo e pertanto non è stato definito quale sia l’importo da riconoscere ai lavoratori a progetto. È ovvio che questa legge migliora leggermente le condizioni dei lavoratori precari del settore, riconoscendo un fisso mensile, ma soprattutto riconducendoli al di sotto di un contratto collettivo nazionale, ma in assenza del rinnovo contrattuale, è sicuramente una bella norma, ma non applicabile. Qualora ce ne fosse ancora il bisogno, questa situazione, come quella degli esodati, mostra la miopia di un governo tecnico, concentrato sulle misure economiche di austerithy che dimentica che dietro ogni legge, ogni norma, non ci sono solo numeri, ma persone, madri e padri di famiglia. Inoltre la normativa in questione aumenta sicuramente il costo del lavoro per le imprese, le quali in assenza di parallele norme di incentivazione alla stabilizzazione, e di regolamentazione degli appalti con le grandi aziende committenti del settore, potrebbero comportare la migrazione di attività verso paesi ove il costo del lavoro è sicuramente inferiore. Nella confusione normativa creatasi, con l’assenza di interpretazioni chiare e di circolari applicative, senza i dovuti controlli degli organi competenti, da qualche tempo in Calabria è scoppiata l’anarchia contrattuale, con le aziende che approfittando del buco legislativo creatosi instaurando rapporti di lavoro privi di dignità, e sicuramente al di fuori di ogni più peggiorativa interpretazione della legge in questione.
Il liberismo sfrenato del settore, norme parziali che paradossalmente incentivano le aziende alla delocalizzazione o alla applicazione di contratti da fame, stanno portando ad un dumping eccessivamente incontrollato. Ciò comporta gravi disagi alle aziende che le regole le rispettano, e si mettono a repentaglio anche i posti di lavoro stabili. Il quadro è chiaro per molti, ma in troppi nel silenzio più totale stanno speculando su questo vuoto legislativo portando all’implosione di un settore che nella sola Calabria occupa oltre 15mila addetti. La Slc Cgil, nel denunciare pubblicamente la situazione venutasi a creare in Calabria, metterà in campo, fin da subito tutte le azioni sindacali e legali per portare alla normalizzazione un settore strategico per l’economia calabrese. Nel far ciò ci appelliamo alle parti datoriali, sociali, politiche ed istituzionali, al fine di collaborare fattivamente nel risolvere il problema in un breve arco temporale. Difendere cinquemila posti di lavoro nella nostra terra non può essere che un obbligo morale per tutte le parti chiamate in causa, e ciascuno per la sua parte dovrà impegnarsi concretamente ad addivinere ad una soluzione. C’è il concreto rischio che nella Regione Calabria si perda la distribuzione, nel 2013, di oltre cento milioni di redditi, mettendo ulteriormente in ginocchio questa regione. La Calabria non può permettersi di perdere una fetta consistente di economia reale, contribuendo alla frantumazione di uno dei pochi settori del privato che in Calabria da lavoro e reddito a migliaia di famiglie.