CINQUEFRONDI – Assunta Iamundo ha 76 anni e la mente piena di ricordi. “Per tutta la vita – dice – ho costruito case”. Emigrante calabrese, “Appena arrivata a Buenos Aires , a soli dieci anni, ho aiutato i muratori a costruire la casa dei miei genitori. Anni dopo e poco distante, ho costruito la mia, con mio marito”. Ma oggi, ritornata in Calabria dopo 66 anni, può dire: “La mia casa è anche qui, è ancora qui”, in questa contrada di campagna divenuta città, “nella stradina dove viveva mia madre” e ora sorge una palestra, nelle campagne che dividevano Cinquefrondi, “il mio paese”, da Anoia e Maropati. Assunta non conosce quasi più nessuno, a Cinquefrondi, il paese che le ha dato i natali e le cui vie oggi sono abitate da perfetti sconosciuti. Ha grandi calli sulle mani forti e gli occhi stanchi ma pieni di racconti.
Abbraccia l’anziana zia che non la vede da 70 anni e ci fa notare come “si è mantenuta bellissima, questa zietta che mi ha cresciuta bambina”. Il suo dialetto è un suggestivo miscuglio di termini arcaici e innesti spagnoli, che danza nelle musicalità di un accento entusiasta. A volte traduce dal calabrese antico direttamente in italiano, ma il suo racconto non s’inceppa mai: “Sono partita che avevo 10 anni con mia madre e le mie sorelle: mio padre ci stava aspettando in Argentina da tempo. Mi ricordo ancora il nome della nave”. Assunta viaggiò a bordo della Andrea Gritti, motonave da carico costruita nel 1943 e subito confiscata dalla Marina, ma derequisita a Napoli dopo la fine del secondo conflitto mondiale e adattata nel 1946 al trasporto di migranti. Oltre 600 persone per il suo viaggio inaugurale di linea – Genova, Napoli, Rio de Janeiro, Santos, Montevideo, Buenos Aires – la Gritti vanta il record di prima partenza di una nave passeggeri italiana nel dopoguerra. Per Assunta fu un viaggio attraverso barriere di sogno: “Quando arrivammo dall’altra parte del mondo, ero senza parole. Non avevo i termini, i concetti per dirlo, per descrivere ciò che vedevo, per quella grandezza”. Scesa dalla nave, “mi sembrò di poter prendere il cielo tra le mani”. I genitori di Assunta non si vedevano da tempo: “Per dieci anni mamma e papà hanno vissuto lontani, separati da un mare che, ora lo sapevo, era troppo grande”.
Al porto di Buenos Aires impiegarono qualche ora prima di ritrovarsi, nella confusione di chi era arrivato con loro e di chi, come il padre di Assunta, li attendeva da anni. Poi l’abbraccio, le lacrime, e l’ultima parte del viaggio: quella verso una nuova casa tutta ancora da costruire. Muratore, il padre di Assunta era partito in cerca di gloria e fortuna dieci anni prima, poco dopo la nascita della sua bambina, e mattone dopo mattone aveva messo da parte i soldi necessari a farsi raggiungere da tutta la famiglia. “Quando siamo arrivati a Buenos Aires abbiamo dovuto rimboccarci le maniche – racconta commossa Assunta – e aiutare papà e i muratori a costruire una casa”. Assunta sposa un operaio del posto, Arcangelo Longo, immigrato italiano, impegnato tutto il giorno in una fabbrica tessile. Ma non ha attraversato l’oceano per stare con le mani in mano: impara l’arte della “custura”, come dice ancora lei, taglio e cucito.
“E lavoravo tutti i giorni, – precisa – cucivo anche se a volte ero stanca, o non ne avevo voglia; il ritmo era quello delle fabbriche, anche se lavoravo da casa, perché ero dipendente di una grande azienda americana”. La comunità di “paesani” è vasta e molto unita: sono molti i calabresi legati ad Assunta e alla sua famiglia per parentela o amicizia di lunga data. “Siamo tutti parenti nel quartiere e, seppure non conoscevo nessuno quando arrivammo – avevo solo dieci anni! – mi sentii subito a casa”. Ancora quella parola, quel concetto potente che segna la coscienza di qualsiasi viaggiatore. Perché sembra che la missione di ogni emigrante, come di ogni giovane che abbia mai deciso di lasciare una terra incapace di dargli un lavoro o un futuro, sia sempre stata quella di trovare un posto da chiamare casa. Cinquefrondi – monumento ai caduti visto da Piazza della Repubblica “Per molto tempo ho fantasticato di tornare in Calabria”, dice, “Ma la mala fortuna mi ha portato via il marito e ho dovuto mettere da parte i sogni. A 47 anni sono rimasta vedova, con tre figli da crescere. Ho lavorato per non fargli mancare niente. È stata una vita di duro lavoro, la mia, ma sono riuscita a garantire alla mia famiglia tutto il necessario. Li ho mandati a scuola, ho pagato l’università, e una di loro ora è laureata. Mi hanno dato sei bei nipoti, due dei quali hanno organizzato questo viaggio in aereo che oggi, dopo quasi 70 anni, mi ha riportato nella mia Cinquefrondi”.
Aveva smesso di sperarci, di tornare in Calabria. E invece eccola di nuovo qui, a commuoversi la mattina di Pasqua durante la rappresentazione dell’Affruntata, uno spettacolo sacro mai dimenticato. “Chi l’avrebbe mai detto! In Argentina abbiamo un club, vicino alla Chiesa, dove ci riuniamo: ci sono i campi sportivi, un parco, guardiamo insieme la tv e parliamo delle nostre origini”. Ogni anno evocano le tradizioni lontane, portate nei cuori attraverso l’oceano e spesso, in qualche modo, ricreati: “A Moròn c’è una statua di San Michele che, quando è la festa dell’arcangelo, santo patrono di Cinquefrondi, viene portata a Buenos Aires, nel quartiere, e facciamo la processione: è come se un giorno all’anno la Calabria si spostasse in Argentina”. E ha un ultimo pensiero, Assunta, verso chi ha vissuto “la mia stessa storia, ma che non ha avuto la mia stessa fortuna”: la buona sorte di tornare almeno una volta, grazie all’iniziativa dei nipoti, nella terra natia. Ci racconta di un compaesano, morto lontano, che tutte le sere chiudeva gli occhi e immaginava di passeggiare nel “suo Cinquefrondi, di attraversare il Corso e salutare l’amico ciabattino, il barbiere, il vecchio panettiere” e solo alla fine, dopo il giro quotidiano di saluti immaginati, riusciva a prendere sonno. La ferita profonda dell’emigrazione ha segnato intere generazioni, conclude Assunta con parole sue, ed è ancora aperta e bruciante. Di queste storie, sospira, i giovani facciano tesoro.
7 commenti
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domenico
15 aprile 2013 a 20:03 (UTC 2) Link a questo commento
complimenti, bel foglio, se posso permettermi scritto molto bene ed efficace. bravo!
saso
15 aprile 2013 a 20:03 (UTC 2) Link a questo commento
grazie!
fabio cuzzola
15 aprile 2013 a 20:03 (UTC 2) Link a questo commento
Articolo che narra, scrittura che racconta, parole che creano identità. Complimenti!
saso
16 aprile 2013 a 20:03 (UTC 2) Link a questo commento
Grazie Lou 2, troppo buono!
fabio cuzzola
16 aprile 2013 a 20:03 (UTC 2) Link a questo commento
“essere non so se non sicero”…..ma è parente di Frank Iamundo l’emigrante del documentario The Visit?!?!?!?
saso
16 aprile 2013 a 20:03 (UTC 2) Link a questo commento
sono molti i Iamundo emigrati a quei tempi, ne ho 3 o 4 in famiglia…
antonio s.
16 aprile 2013 a 20:03 (UTC 2) Link a questo commento
quel “frank” era un emigrato canadese se non ricordo male.