IL CINEMA ITALIANO E’ STATO COLPITO da un lutto la scorsa settimana: il 7 marzo, per un’insufficienza respiratoria, si è spento a Roma il regista Damiano Damiani, uno dei maggiori esponenti del cosiddetto cinema di impegno civile del nostro Paese. Ed anche uno dei migliori artigiani cinematografici imprestati alla televisione, in cui non si limitò solo a girare una serie (La piovra), ma vi infuse il ritmo e lo stile tipici del cinema come nessuno aveva fatto fino a quel momento in Italia. Damiani, classe 1922, era inattivo da ormai dieci anni, il suo ultimo lavoro era stato il film Assassini dei giorni di festa (2002), passato completamente inosservato, ma la sua carriera era già terminata due anni prima con l’uscita dell’orrido Alex l’ariete, un poliziesco che avrebbe dovuto lanciare l’ex sciatore Alberto Tomba come nuovo divo del cinema italico e che invece, per colpa di produttori incompetenti, attori cani ed un montaggio approssimativo, oggi viene ricordato come una tappa trash nella vita di Damiani, il quale non ne aveva certo tutte le colpe. Ma quel film fu veramente una zona d’ombra sul suo lavoro, che portò addirittura qualche sconsiderato a sostenere che tutta la filmografia di Damiani fosse di scarsa rilevanza.
Niente di più sbagliato: il punto di forza di Damiani, almeno nei suoi film migliori, era una forte predilezione per il documentario misto ad un racconto lineare di sicura presa popolare. In parole povere, era un intellettuale che si esprimeva in maniera semplice, senza presunzioni di sorta. E per questo è sempre stato premiato più dal pubblico che dalla critica. Come regista non era sicuramente secondo a nessuno. Dopo un’esperienza decennale come documentarista, Damiani si fece notare nel 1960 con un thriller psicologico, Il rossetto, che lo impose subito all’attenzione: avvalendosi anche dell’interpretazione niente meno che di Pietro Germi, il regista racconta un caso di omicidio con gli occhi di una tredicenne innamorata del potenziale assassino, riuscendo ad evitare con abilità le trappole che un soggetto così pruriginoso poteva comportare, ma descrivendo perfettamente le personalità dei personaggi ed un ambiente borghesuccio e asfissiante. Fu una rivelazione che confermò il suo talento con L’isola di Arturo (1962) e La noia (1963), tratti dai romanzi rispettivamente di Elsa Morante e di Moravia, in cui, soprattutto nel secondo, c’era una concreta motivazione di esplorare le nuove psicologie di massa negli anni del boom economico che si affacciava al benessere.
Ma la sterzata della sua carriera arrivò addirittura con uno spaghetti western, quel Quièn sabe? (1966) che aprì la strada ad un sottogenere, lo “Zapata-western”, con una serie di pellicole dedicate alla rivoluzione messicana degli anni 10, tra cui ci mise mano lo stesso Sergio Leone con Giù la testa (1971). Da lì forse lo stesso Damiani si rese conto di poter filmare storie più leggere dal punto di vista “intellettuale”, ma con immagini da gran cinema popolare e di massa. E che poteva anche far riflettere lo spettatore. Nasceva il cinema di denuncia e di impegno civile, che il regista fece iniziare con il film per cui è maggiormente ricordato, Il giorno della civetta (1968), tratto dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia, che, anche se rielabora liberamente alcune parti narrative e amplia il ruolo di alcuni personaggi, è una di quelle poche pellicole che rispettano lo spirito del racconto letterario che le ha originate.
Non solo, per la seconda volta (dopo Salvatore Giuliano di Francesco Rosi) il cinema cerca di parlare di mafia evitando gli stereotipi più facili e le trovate narrative più semplicistiche; e come regia, sfrutta al meglio gli attori, da Franco Nero ufficiale integerrimo a Claudia Cardinale mai più così bella e misteriosa fino a Lee J. Cobb, perfetto nel ruolo del padrino onnipotente. Un altro merito è quello di aver promosso attore un bravo caratterista come Tano Cimarosa nel ruolo del gregario Zicchinetta. La moglie più bella (1970) vede invece il mondo della mafia dall’ “interno” e le forze dell’ordine lontane, addirittura fastidiose; un meccanismo alla rovescia che funziona meglio del precedente, con una trama ispirata ad un fatto reale che impressiona più di quella simbolica del Giorno della civetta. La storia della quindicenne Francesca che, nella Sicilia interna, si rifiuta di sposare il giovane picciotto che l’ha rapita e violentata, permette di denunciare due aspetti dell’epoca: il matrimonio riparatore e la situazione dei terremotati del Belice, con riprese tra i baraccati e le “fresche” rovine del paese di Gibellina, raso al suolo dal terremoto di due anni prima. E non dimentichiamo che fece scoprire una nuova promessa del cinema italiano, Ornella Muti, che proprio con questo film iniziò la sua brillante carriera. Come prese il volo la carriera di Damiani: negli anni settanta produsse molti film di denuncia come Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica (1971), L’istruttoria è chiusa: dimentichi (1971), Girolimoni, il mostro di Roma (1972), Perché si uccide un magistrato (1975), Io ho paura (1977), Un uomo in ginocchio (1979), L’avvertimento (1980). Addirittura fu chiamato in America a dirigere l’horror Amityville Possession (1982), secondo capitolo della celebre saga delle case infestate.
Negli anni ottanta, Damiani fa la storia della Rai dirigendo le puntate della prima stagione della serie La piovra (1984) dove inietta il cinema nelle asettiche inquadrature televisive e genera un successo che trainerà la serie fino al 2003, anche se il regista non andrà oltre le prime sei puntate. E del 1985 è il film Pizza Connection, forse l’ultimo film interessante di Damiani che lanciò definitivamente come divo l’attore Michele Placido, unitamente alla Piovra, e parlò per la prima volta dei possibili intrecci tra mafia e politica come già la stessa serie Tv, creando una marea di polemiche. Negli anni novanta, si dedicò completamente alla televisione e agli sceneggiati. Forse si è scritto anche troppo, siamo ancora convinti che il suo fosse un cinema irrilevante? A voi la sentenza.