• Patto di stabilità? Se si vuole la crescita è ora di rivederlo
    15/05/2012 | Giuseppe Campisi | Edicola di Pinuccio

    IN UNA SITUAZIONE  infelice e di profonda crisi per l’economia mondiale da cui par vedere la luce in fondo ad un tunnel spostato sempre più lontano, una delle poche ricette da somministrare a costo (quasi) zero per poter tentare di riattivare il volano dell’economia interna potrebbe essere certamente quella di rivedere il c.d. patto di stabilità, che come una tagliola serra le casse dei comuni (specie di quelli virtuosi) costringendoli ad annullare gli investimenti possibili su settori importanti quali infrastrutture ed edilizia che indubbiamente, come sottolinea l’Anci per mezzo del presidente Graziano Delrio, porterebbero dare una buona boccata d’ossigeno all’occupazione. Il patto di stabilità interno (o, PSI) nasce dall’esigenza di convergenza delle economie degli stati membri della Ue verso specifici parametri, comuni a tutti, e condivisi a livello europeo in seno al Patto di stabilità e crescita e specificamente nel trattato di Maastricht (Indebitamento netto / Prodotto interno lordo  inferiore al 3% e rapporto debito pubblico / Prodotto interno lordo convergente verso il 60%).

     

    Se da un lato questo parametro doveva servire da deterrente per limitare le spese “allegre”, “lievitanti” o “fuori bilancio” della pubblica amministrazione, sicuramente dall’altro ha generato effetti collaterali importanti e spesso non significativamente attenzionati quali appunto, per talune amministrazioni, la possibilità di recuperare fondi col paradosso di non poterli spendere. E’ il caso, ad esempio, dei comuni metropolitani italiani il cui potenziale sblocco del patto potrebbe portare investimenti per quattro decimi del prodotto interno lordo, e non sarebbe poco se pensiamo che a spanne potrebbe trattarsi d’una spesa pari a circa 7 miliardi di €. Se a questo poi aggiungiamo le enormi difficoltà con cui le imprese riescono (ma più spesso, non riescono) a farsi pagare dalle pubbliche amministrazioni ecco che appare in tutta evidenza il collo di bottiglia che affoga le aziende. Da noi, le imprese aspettano, in media, otto mesi per ricevere le somme di denaro dovute dal settore pubblico, con punte che superano i due anni ed ora anche con la velata promessa (o se meglio si vuole, minaccia) d’esser regolarizzati con titoli di stato e certificati di deposito. Il che non può far certo piacere. Per i costruttori s’è espresso il presidente dell’Ance, Paolo Buzzetti, il quale è stato molto chiaro in proposito.

     

    “Non vogliamo pagamenti con baratti, e garanzie varie. Vogliamo essere pagati in denaro, vogliamo liquidità” (che sarebbe poi la normalità e ciò di cui hanno effettivamente bisogno le imprese, visto che, come noto, le banche hanno ibernato la concessione di crediti a famiglie ed aziende) ha chiosato perentorio, stimando che si arriverà almeno a 9 miliardi di arretrati e fino a 19 miliardi di crediti se si considera tutta la filiera. Da qui la minaccia, e questa volta non velata, di adire allo strumento del recupero del credito per decreto ingiuntivo verso gli enti locali. Mossa provocatoria e di grande rilievo paradossale per un paese industrializzato e per giunta occidentale. Ma ancor più comprensibile se si pensa che se il patto ha prodotto il benefico effetto di salvaguardare la spesa pubblica costringendo i comuni al supplizio di Tantalo, avendo peraltro anche il non invidiabile merito di spalancare le porte del fallimento per l’impresa privata che spesso spira con il titolo in mano.