LA NASCITA dell’ordinamento regionale italiano nel 1970 fu accompagnata da espressioni piuttosto diffuse di consenso, da «aspettative quasi messianiche» [Putnam, Leonardi e Nanetti 1985, 15] di rinnovamento delle strutture politiche e amministrative del Paese. Dal decentramento ci si attendeva, in genere, un impulso decisivo alle riforme economiche e sociali, nel solco di una programmazione fino ad allora incostante e disomogenea, e una svolta verso l’efficienza burocratica, nonché un incoraggiamento a realizzare forme più democratiche di processo decisionale, tendenti perfino all’autogoverno delle comunità locali. Uno degli auspici più invocati, tanto da divenire una chiave di lettura della riforma regionalista in ambito sociologico e storiografico, era la «dispersione delle tensioni» dal centro del sistema politico e istituzionale alle periferie. In altre parole, la «funzione di composizione del conflitto» [Rotelli 1974b, 14] era considerata tra le più comunemente apprezzate che l’istituzione delle regioni a statuto ordinario avrebbe potuto assolvere.
In Calabria, tuttavia, fu proprio l’attuazione del dettato costituzionale in materia di autonomie locali a scatenare accese ostilità infraregionali sull’assetto organizzativo degli uffici e sul riconoscimento delle gerarchie simboliche tra i maggiori centri urbani, condensate nella disputa per la designazione a capoluogo del nuovo ente. Ne presero parte le città di Reggio Calabria e di Catanzaro. Di fronte a orientamenti favorevoli a quest’ultima, nel luglio 1970 (un mese dopo le prime elezioni regionali), la popolazione reggina manifestò un acuto dissenso, rivendicando il primato regionale con assemblee, comizi, cortei e scioperi, che sfociarono in uno dei moti di protesta più significativi, per violenza (con uso di armi da fuoco ed esplosivo) e durata (fino al febbraio 1971, con notevoli strascichi), della storia dell’Italia repubblicana.
Si trattava di un effetto tra i più paradossali e indesiderati che ci si potesse attendere dal processo di “regionalizzazione”, termine con cui si intende l’«operazione di cui lo stato si è servito per dare organicità e uniformità istituzionale ai complessi umani – territorialmente definiti in entità di diversa origine storica – che lo formano». Un concetto distinto, come ha spiegato Lucio Gambi, da quello di “regionalismo”, che è invece il «riconoscimento di aree contrassegnate da una omogeneità, o meglio da un particolare forma di coesione e coordinazione per ciò che riguarda in primo luogo la struttura economica e i patrimoni culturali» [Gambi 1977, 276]
I caratteri salienti della rivolta per Reggio capoluogo. A partire dalla recente storiografia [cfr. le rassegne bibliografiche Ambrosi 2005, Gervasoni 2008; Ambrosi 2008] sulla rivolta di Reggio Calabria del 1970, qui si evidenziano soltanto i caratteri più rilevanti e in ogni caso utili a comprendere il significato di tale evento in rapporto alla regionalizzazione. La prospettiva analitica è quella di un fenomeno di azione collettiva, atipico – sebbene non unico – nel quadro del ciclo di protesta che caratterizzò la storia italiana tra gli anni Sessanta e Settanta. Rispetto ai movimenti allora prevalenti, studenteschi e operai innanzitutto, appare inconsueto il criterio di aggregazione: un senso di appartenenza territoriale, interclassista e ideologicamente trasversale [cfr. Lombardi Satriani 19792; Bova 1995], piuttosto che improntato alla comune condizione generazionale o di classe. Ciò deriva dall’altrettanto insolito motivo iniziale della protesta, la rivendicazione del ruolo di capoluogo della Calabria, che risultò pure la «molla centrale […], obiettivo nel quale confluivano frustrazioni e attese, vero cemento della sollevazione di massa» [Cingari 1982, 379]. Inoltre, l’andamento della partecipazione collettiva dimostra che la richiesta del capoluogo rimase imprescindibile, l’unico fattore capace di determinarne alti e bassi, anche dopo il sommarsi di ulteriori e più ampie ragioni di contestazione [Ambrosi 2009, 269].
Rispetto alla temperie culturale e politica dominante, sono peculiari anche i vari soggetti che animarono la protesta nelle sue diverse fasi, con finalità anche differenti e strumentali, ma senza riuscire a sganciarsi mai dall’istanza di natura localistica. I promotori furono esponenti locali della Dc, partito di maggioranza relativa, alla guida del Comune e della Provincia. Accanto a essi si collocarono membri dei partiti laici di governo, del Msi, dei sindacati (Cisl e Uil), dell’associazionismo (cattolico, in particolare) e della Chiesa. Il Psi, il Pci e la Cgil reggini non aderirono alla mobilitazione, prediligendo per la città un futuro d’industrializzazione. Dopo qualche settimana, la gestione del movimento passò a vari comitati civici, in particolare al Comitato d’azione, capeggiato da un sindacalista della destra radicale e rimasto egemone fino al termine della rivolta.
Sin dal 14 luglio 1970, quando si verificarono i primi incidenti, la grave crisi dell’ordine pubblico diventò una variabile di notevole influenza sugli schieramenti, pro o contro capoluogo. A Reggio non vi era l’abitudine a scontri di piazza di un certo rilievo [Acs, Mi, Gab., 1967-70, b. 529, fasc. 17222/66 e b. 39, fasc. 11001/97], eppure il repertorio d’azione dei manifestanti comprese forme variegate e radicali (barricate, molotov, armi da fuoco, ecc.) e l’intervento poliziesco si presentò sproporzionato sul campo e vessatorio nei luoghi dove si concentravano i numerosi fermati. Questa fu la dinamica più o meno costante del lungo e intenso periodo di violenza, durante il quale persero la vita cinque persone (tre civili e due militari). Violenza motivata da parte dei reggini come reazione all’accanimento repressivo e all’ostilità o indifferenza governativa verso la città, dovuti alla presenza di esponenti politici di Catanzaro e di Cosenza ai vertici ministeriali, e da parte delle autorità statali con l’intromissione nella guerriglia urbana di forze eversive di destra e di sinistra, nonché della criminalità organizzata.
In entrambi i casi si tratta di posizioni fornite di fondamento e chiarificatrici solo in parte, con la dovuta considerazione delle alterne fasi della protesta, riscontrabili perlopiù indirettamente o muovendosi sullo scivoloso crinale di misteriosi retroscena. Gli abusi delle forze dell’ordine furono denunciati anche dalle forze di sinistra [Acs, Mi, Gab., 1967-70, b. 513, telegramma di Pci, Psi, Psiup e Acli di Lamezia Terme del 22 luglio 1970] e confessati, a distanza di tempo, dagli stessi poliziotti [Cgb, Asfc, Fondo “Luigi Ambrosi”, testimonianza di A. A.]. Riguardo agli autori delle violenze di piazza, i rapporti delle autorità statali e le cronache giornalistiche riferiscono piuttosto genericamente di un preminente protagonismo giovanile, trasversale sia dal punto di vista sociale che ideologico. Più dettagliati risultano i dati polizieschi e giudiziari, come la lunga lista riportata nel reportage Buio a Reggio [Malafarina L., Bruno F. e Strati S. 20003, 789-864], inadeguati a sostenere generalizzazioni se non sui soggetti ritenuti, anche pregiudizialmente, autori di disordini, analogamente di varia estrazione socialee soprattutto giovani (il 47% di arrestati e denunciati è sotto i 25 anni e il 10% sotto i 18 [Acs, Mi, Gab., 1971-75, b. 396, rapporto del prefetto di Reggio n. 2393 del 21 luglio 1972]). Qui è sufficiente, a supporto di questa visione “corale” dei protagonisti della mobilitazione – non necessariamente degli scontri –, citare la lettera che, dopo tre mesi di rivolta, la cellula comunista del deposito locomotive di Reggio inviò alla Direzione nazionale del Pci: «Non è vero come si afferma che sulle piazze ci sono pochi fascisti facinorosi e teppisti, ma giovani, studenti e operai, anche di sinistra e financo nostri compagni» [Fg, Pci, Rp, mf . 70, 29 settembre 1970, pp. 69-71].
D’altra parte, è appurato l’intervento nella rivolta di gruppi della destra extraparlamentare (Avanguardia nazionale, Fronte nazionale, Ordine nuovo), in polemica con l’ipotesi di formule governative più orientate a sinistra e la partitocrazia nel suo complesso, e – pur enfatizzato – della sinistra extraparlamentare (anarchici, marxisti-leninisti, Lotta continua), in chiave antistatalista e anticapitalista, senza poter accertare la loro influenza determinante nella provocazione dei disordini. Una simile accortezza va riservata alle cosche della ’ndrangheta, pur essendo stato riscontrato giudiziariamente il contributo mafioso alle numerose azioni terroristiche avvenute durante la rivolta, per mezzo di un uso esteso e massiccio del tritolo, tra cui il deragliamento della Freccia del Sud del 22 luglio 1970 [Ciconte 1996; Ferrari 2006]. In ogni caso, si mostrò da subito singolare la composizione delle coalizioni, a favore dei diritti civili o all’insegna del motto “legge e ordine” [Della Porta e Reiter 2003, 27], che si formano tradizionalmente in merito alla gestione dell’ordine pubblico, come rilevato dall’inviato del « Tempo»:
Qui stanno diventando fautori del disordine anche i più celebrati uomini d’ordine; venerati professionisti, celebri avvocati, industriali, marchesi, liberali illuminati e missini fautori dello Stato forte […]. Contemporaneamente i tradizionali fautori del disordine, comunisti e sindacalisti di sinistra, i contrari alla protesta per “Reggio capoluogo” scontano le colpe della loro tardiva e interessata conversione all’ordine. [Chiocci 1970].
Questo aspetto fa emergere i tentennamenti del Msi, i cui vertici nazionali non sostennero da subito la mobilitazione per il capoluogo, tanto da veder bruciate le copie dell’organo di stampa ufficiale del partito, colpevole di aver giudicato severamente i dimostranti [Galli 1974, 17; Rossi 1992, 160]. Il partito neofascista non aveva ancora assimilato del tutto la versione movimentista della “piazza di destra” e la linea dell’alternativa del neosegretario Giorgio Almirante [Ignazi 1989, 135-148]. Tuttavia, il Msi riuscì a egemonizzare il movimento di protesta soprattutto grazie agli accenti meridionalisti e antipartito [Lupo 2004, 221-234] che gli impresse, assecondato dall’inerzia governativa e dai metodi dilatori e illusori della classe dirigente.
Il ribaltamento dell’abituale atteggiamento del Pci verso l’ordine pubblico non spiega in modo esaustivo la posizione del principale partito d’opposizione verso la protesta per il capoluogo. Infatti, alla contrapposizione totale degli inizi, nell’ottobre 1970 subentrò una fase di mobilitazione, soprattutto in provincia di Reggio, non solo per denunciare e contrastare la leadership della rivolta, ritenuta eversiva, ma in chiave meridionalistica e critica verso una riduzione del malcontento a mero problema di ordine pubblico [Ambrosi 2009, 69-72]. Solo in seguito, i comunisti approdarono a una rigida posizione repressiva, influenzata dal clima nazionale di apprensione per le minacce neofasciste [Panvini 2009, 126-131]. In base a queste brevi osservazioni, risulta evidente quanto si presentarono articolate e contraddittorie, in termini di scansione temporale e di molteplicità di fattori condizionanti, le posizioni delle forze politiche e sociali durante della rivolta. Esse costituirono un panorama complesso, in cui comunque la questione di fondo rimase la prolungata incapacità di conciliazione del conflitto tra i territori calabresi.
Tensioni territoriali forti e identità regionale debole. La mediazione con cui si pose termine alla rivolta, già declinante anche per la stanchezza diffusa nella popolazione, fu raggiunta il 16 febbraio 1971, quando il Consiglio regionale approvò l’ordine del giorno che recepiva una proposta del presidente del Consiglio, il democristiano Emilio Colombo: Catanzaro ricevette la sede della Giunta e il titolo di capoluogo mentre a Reggio fu destinata la sede dell’Assemblea; fu confermata l’indicazione di Cosenza a sede universitaria e l’assegnazione di stabilimenti industriali, in particolare il V centro siderurgico, alla provincia reggina. La contesa per il capoluogo tra Reggio e Catanzaro, d’altronde, era inscindibile da un’ampia controversia di natura territoriale sulle opportunità di sviluppo offerte dal governo, che risulta presente in Calabria con più marcate profondità temporale e articolazione spaziale.
La lunga disputa per il capoluogo era iniziata addirittura nel 1947 [Sergi 2000], quando l’ordinamento regionale era solo un progetto al vaglio della Costituente, e aveva coinvolto anche il terzo capoluogo di provincia, Cosenza, defilata nel 1970 poiché interessata all’indicazione quale sede universitaria. Un’altra disputa si era profilata già nel secondo dopoguerra, accanto a quella per il capoluogo, quando l’ordine degli avvocati catanzarese si era mobilitato contro l’«inizio di un subdolo movimento tendente a staccare dalla Corte di Appello di Catanzaro altro o altri tribunali viciniori [il timore era riferito ai fori di Palmi e di Locri, siti nella provincia reggina, Nda] allo scopo di poter dar vita alla grama Sezione della Corte di Appello di Reggio» [Acs, Mi, Gab., perm., H. Uffici, 1950-52, b. 232, fasc. 92/h, documento Per la Corte d’Appello di Catanzaro del 13 gennaio 1949]. Si trattava dell’espressione più emblematica del «ricorrente conflitto sugli uffici direzionali di vecchia o nuova istituzione» [Cingari 1988, 370] in cui si sarebbe espresso l’antagonismo tra i maggiori centri urbani della Calabria, in particolare Reggio e Catanzaro, nei decenni seguenti, mentre la disputa per il capoluogo si sarebbe spenta con l’accantonamento delle Regioni a statuto ordinario. Infatti, la questione della corte d’Appello fu ripresa alla fine degli anni Cinquanta da parte reggina, all’interno di un più ampio e «profondo malcontento degli ambienti politici, economici, sindacali e forensi per la mancata soluzione da parte delle autorità centrali dei più importanti problemi del capoluogo e della provincia»[Asrc, Pref., Uv, b. 22,rapporto del gruppo carabinieri di Reggio del 31 gennaio 1959]. L’elenco era ampio: dall’ammodernamento del porto e dell’aeroporto, minacciati di marginalizzazione e abbandono, all’ampliamento della rete ferroviaria e stradale; da una più stabile industrializzazione al rapido compimento dei progetti di bonifica idraulico-forestale dell’Aspromonte; fino all’edilizia popolare e all’acquedotto.
Una fitta trama di simili istanze di natura territoriale, non necessariamente contrastanti, era alla base della competizione coinvolgente anche altre città e province prima della rivolta del 1970. Questo è lo scenario in cui si svolse, a partire dal 1968, la disputa tra Cosenza e Lamezia Terme per la sede dell’ateneo della Calabria. E, sebbene non si espresse in forme conflittuali di rilievo, anche la questione degli investimenti industriali – in particolare del V centro siderurgico – interessò diverse zone della Calabria, tra cui la Locride, facendo emergere tensioni infraprovinciali con Reggio. A questo proposito, il ministro democristiano cosentino Riccardo Misasi ha rivelato – vent’anni dopo la rivolta – di aver assunto un’iniziativa per convincere i catanzaresi dell’opportunità di concedere il capoluogo a Reggio, «in cambio di una concentrazione delle attività industriali-manifatturiere nella fascia centrale della Calabria, da Crotone sino a Lamezia Terme». Un progetto che non fu reso pubblico perché avrebbe potuto creare, secondo Misasi, nuove spaccature tra la gente di Calabria. Lo schematismo proprio dei momenti sempre più semplificanti […] probabilmente avrebbe generato tanti altri fenomeni di “boia chi molla”. Avremmo potuto avere una divisione, o un’insorgenza a Lamezia o a Crotone, luoghi dove nella mia ipotesi, poteva, ad esempio essere prevista l’ubicazione del quinto centro siderurgico. Avremmo potuto, cioè, dividere la Calabria in quattro cinque pezzi: Reggio contro Catanzaro e viceversa; Crotone e Lamezia contro Catanzaro e magari a favore di Reggio; Gioia Tauro e i centri della Piana con Catanzaro e contro Reggio [Sgroj 1991, 211].
Esisteva, dunque, la consapevolezza degli effetti laceranti che le rivendicazioni territoriali e i conflitti infraregionali concentratisi nel momento di costituzione della Regione nel 1970 potevano avere sull’unità della Calabria, che storicamente possedeva un’identità regionale plurima e perciò debole. Era nota, infatti, la lunga durata della quasi incomunicabilità tra le varie Calabrie così diverse per tradizione storica, struttura economica, articolazione sociale. Dalla prima alla seconda Pro-Calabria [leggi speciali rispettivamente di inizio Novecento e degli anni Cinquanta, Nda] non erano mancate ragioni di contrasto, è già attorno all’ente preposto all’erogazione dei mutui per la ricostruzione [dopo il terremoto di Reggio e Messina del 1908, Nda], istituito prima a Catanzaro e poi tripartito, le polemiche tra Chimirri e De Nava [esponenti governativi dell’età liberale, rispettivamente di Catanzaro e Reggio, Nda] non erano passate senza effetti sulla costituzione morale delle rispettive popolazioni. I contrasti si erano ravvivati dopo il terremoto e al momento dell’introduzione della circoscrizione regionale. Né si erano abbassati sotto il fascismo per l’istituzione a Catanzaro di altri uffici [Cingari 1982, 379].
Il problema non era soltanto calabrese, sebbene in quel caso si presentasse più accentuato, giacché «neanche le Regioni di cui si può supporre l’unità in quanto evidentemente segnate dalla geografia fisica nel loro isolamento dal resto del territorio, risultano poi così “unitarie” se analizzate da altri punti di vista», ha sottolineato Marco De Nicolò [2006, 13], citando il caso siciliano. Inoltre, negli anni Settanta alcune ragioni strutturali di disgregazione apparivano ormai superate o in via di superamento, per i molteplici effetti dei processi di nazionalizzazione e modernizzazione: l’omologazione linguistica e culturale, dovuta alla scolarizzazione di massa e alle diffusione dei mass media; l’integrazione infrastrutturale e lo spopolamento delle campagne; la convergenza verso un modello di crescita economica urbano basato sul binomio edilizia-terziario. Ciò che rimaneva principale fonte di divergenza e di indebolimento dell’identità regionale erano le scelte di localizzazione delle risorse erogate dal centro e degli interventi governativi in genere, di cui Cingari attesta la portata secolare con i riferimenti all’età liberale e a quella fascista. Un terreno su cui la Regione avrebbe potuto svolgere un’utile funzione compositiva e che, invece, portò nuova linfa alla conflittualità territoriale, richiamando così le dirette responsabilità del ceto politico calabrese, in particolare quello incaricato di funzioni di governo a livello nazionale e locale.
Il localismo del ceto politico calabrese. Le rappresentanze politiche e amministrative di tutti i territori calabresi riconobbero pubblicamente la necessità di assumere un’ottica regionalistica nella risoluzione delle questioni poste dalla rivolta di Reggio. Furono generalizzate e reciproche le esortazioni ad attenersi alla formula della “visione globale e contestuale”, a un criterio di scelta che tenesse conto allo stesso tempo delle esigenze di sviluppo dell’intera regione e dei contesti territoriali più adeguati ad attuarle, secondo una logica unitaria e insieme rispettosa dei diversi interessi locali. In questa prospettiva, prima della rivolta, il Consiglio comunale di Reggio, quasi all’unanimità, aveva proposto un confronto ampio e rappresentativo, magari comprendente «tutti gli eletti della Regione» [Asrc, Pref., Uv, b. 416, Odg del Consiglio comunale di Reggio del 21 marzo 1969], di ogni ordine e grado, delle tre province calabresi. Ma un’assise plenaria di questo genere non fu mai nemmeno tentata.
Prevalse, invece, il metodo – più consueto e pragmatico – di un confronto tra le forze politiche di governo (Dc, Psi, Psu e Pri), cercando una soluzione innanzitutto all’interno dei singoli partiti e quindi della coalizione, in base alla gerarchia di responsabilità corrispondente al peso specifico a livello regionale e nazionale. Si tentò di comporre le fratture, presenti principalmente all’interno del partito di maggioranza relativa, mediante l’apertura di una trattativa tra le dirigenze locali mediata dai vertici nazionali. La difficoltà di trovare un compromesso con questo metodo si evince dal verbale di una riunione tenuta a metà gennaio 1970 presso la segreteria politica della Dc, sotto la presidenza del responsabile nazionale per gli enti locali e alla presenza del commissario regionale, durante la quale i segretari delle tre province si limitarono a porre le proprie istanze territoriali irriducibilmente concorrenti [Is, Dc, Sp “Forlani”, Cop, sc. 199, fasc. 2, verbale della riunione del 14 gennaio 1970].
Gli archivi democristiani offrono altre prove della scarsa volontà di tradurre in concreto i proclami di regionalismo da parte del ceto politico calabrese, più eloquenti proprio perché espresse nella fase precedente allo scoppio della rivolta di Reggio, in cui non erano intervenuti altri fattori condizionanti come la violenza di piazza. A margine dei colloqui ufficiali, si attivò un canale più riservato di comunicazione tra le diverse periferie della Dc e il centro del partito, mediante appelli e reclami che rivelano l’incapacità di abbandonare una visione localistica da parte di esponenti di tutti i territori. Ne sono un esempio la lettera inviata al segretario politico nazionale dal presidente della Provincia di Catanzaro, per chiedere l’impegno – oltre che a «mantenere» il capoluogo a Catanzaro – ad adoperarsi affinché «l’Università anche se in provincia di Cosenza venga ubicata in zona il più possibile vicina alla piana lametina» [Is, Dc, Sp “Forlani”, Cop, sc. 199, fasc. 2, lettera del 20 gennaio 1970)], e da un consigliere nazionale della Dc di Cosenza, che esprimeva il proprio rammarico per i ripetuti rinvii dell’indicazione della sede universitaria, ritenuta favorevole alla propria città [Is, Dc, Sp “Forlani”, Cop, sc. 199, fasc. 2, lettera del 28 gennaio 1970]. Altrettanto indicativa la lettera personale di un senatore democristiano, ex presidente della provincia di Catanzaro, a un giornalista reggino per esprimergli il consenso a tutte le argomentazioni esposte a sostegno della tesi giusta che indica la piana Lametina, scartando la Montagna Cosentina [come sede dell’ateneo, Nda]. Mi auguro anche io che una intesa tra le due Province di Catanzaro e di Reggio Calabria valga a fuggire il pericolo di una soluzione pregiudizievole per l’intera Regione. Il Ministro […] ha dichiarato che soluzione da noi caldeggiata sarebbe più costosa e di più difficile realizzazione: evidentemente preferisce la montagna… per fare una cosa più modesta, meno costosa certamente, a carattere provinciale o addirittura intercomunale! [Asrc, Fp “La Tella”, carteggio, b. 1, lettera del 7 novembre 1969].
Il senatore di Catanzaro, pur appellandosi al principio di utilità generale, accantonava il criterio della contestualità, caldeggiando una scelta ritenuta «più costosa e di difficile realizzazione», e soprattutto non nascondeva un’impostazione in termini di alleanza tra le province piuttosto che di “confronto globale”. Riguardo all’ateneo, le spinte localistiche erano parse allontanarsi con la scelta del modello accentrato in un unico campus residenziale, che sin dall’inizio degli anni Sessanta si era presentato alternativo all’assetto organizzativo a facoltà decentrate in diverse zone della Calabria. Tuttavia, la scelta della sede aveva prodotto notevoli fratture, in particolare tra gli esponenti democristiani di Cosenza e di Lamezia, tali da pesare nella vita regionale del partito, secondo la «Gazzeta del Sud», più dell’abituale lotta fra correnti [Rischia una altro rinvio 1970].
Rispetto al capoluogo e all’università, la scelta di localizzazione delle industrie poneva vincoli tecnici che potevano costituire più solidi criteri per l’assegnazione, rendendo subordinate e meno incisive le istanze localistiche. Eppure si crearono divisioni ancora più capillari, all’interno della stessa provincia reggina, con gli amministratori democristiani della Locride, che, in base al principio della “soluzione globale e contestuale dei problemi della regione”, chiedevano la collocazione del centro siderurgico nella loro area, dichiarandosi indifferenti alla designazione capoluogo [Reggio capoluogo non risolverà 1970; I consiglieri comunali dc di Gioiosa I. sconfessati 1970].
Insomma, l’intero ceto politico calabrese pronunciava dichiarazioni regionaliste senza mostrarsi disposto a cedere sui “diritti” inalienabili del proprio territorio. Questa contraddizione si manifestò in particolare nella Dc, che non riuscì mai a rappresentare una posizione unitaria a livello regionale o nazionale. Lo schema prevalente all’interno della Dc fu quello della frammentazione territoriale di rappresentanti e dirigenti locali, impegnati in tentativi di pressioni – regolati solo secondariamente dalla dialettica tra le correnti [Caligiuri 1994] – sui vertici nazionali esitanti e inefficaci. In genere, però, in tutte le compagini politiche si avvertì una forte tensione tra le varie periferie e rispetto al centro: gli esponenti dei partiti minori (Psu, Pli, Pri) si schierarono ciascuno per gli interessi del proprio territorio, riuscendo raramente a proiettare la propria posizione a livello regionale e nazionale. Nonostante il sostegno nazionale alla protesta reggina, anche il Msi apparve diviso a livello regionale [Cfr. Polimeni 1996; Nunnari 2000].
Il Psi, principale alleato di governo della Dc, vantò una posizione unitaria e regionalista, sebbene a Reggio si registrarono polemiche, espulsioni, dissensi di intellettuali e figure storiche del socialismo reggino. In effetti, fino a poco prima dell’esplosione della rivolta, esponenti del partito socialista reggino avevano preso parte a iniziative pro capoluogo e in seguito sostennero – secondo un’analoga logica localistica – la richiesta del V centro siderurgico, sottratto alla Sicilia, con la conseguenza delle dimissioni della giunta regionale isolana [In crisi in Sicilia il governo regionale 1970]. Sebbene sia difficile una verifica, è probabile che il raggiungimento di una posizione unitaria del Psi fosse il risultato delle gerarchie interne, al cui vertice era il segretario nazionale e cosentino Giacomo Mancini, piuttosto che di una genuina ottica regionalista. D’altronde, proprio Mancini, da ministro dei Lavori pubblici, aveva influenzato la scelta di localizzazione dell’autostrada A3 Salerno-Reggio a favore di un tracciato interno e montuoso, più disagiato e dispendioso di quello costiero e pianeggiante, che avrebbe però inglobato nel percorso la città di Cosenza, offrendole prospettive di crescita di sicuro ritorno elettorale [D’Antone 2007].
Anche il Pci, come il Psi, ostentò una posizione unitaria, interpretando la rivolta anche come manovra antiregionalista, in cui emergeva una deleteria visione dell’ente e del ruolo di capoluogo: «La Calabria non ha bisogno di una “capitale” […] che si riduca in sostanza in un centro burocratico e di potere al servizio dei gruppi clientelari della Dc, del Psu e delle destre» [Asrc, Pref., Uv, b. 304, manifesto della federazione reggina del Pci, Difendiamo Reggio e i suoi interessi!]. In realtà, appare forzato l’accostamento dei gruppi della Dc e del Psu al Msi, difficilmente imputabile di interesse al mantenimento di un sistema di potere clientelare, a cui era oggettivamente estraneo, e tanto meno alla costituzione di una “capitale” burocratica di un ente che continuava ad avversare. Inoltre, il dibattito sull’utilità e le funzione della Regione nel contesto calabrese non fu molto approfondito nemmeno tra i comunisti. A livello nazionale, come dimostra il verbale della riunione della Direzione del 16 ottobre 1970, prevalse la preoccupazione di non assecondare le modalità violente con cui i reggini avevano reclamato il capoluogo, accompagnata però a una notevole confusione sull’atteggiamento tenuto verso i contrasti territoriali che le avevano prodotte, come mostrano i dubbi di Umberto Terracini: «La nostra scelta era già fatta? Eravamo per Catanzaro? Su quali fondamenti? […]. Adesso è divenuta una questione nazionale. Io non mi spaventerei di dire: Catanzaro. […]. Reggio mi pareva che venisse di per sé. Io non ho prevenzioni verso questa o quella» [Fg, Pci, Direzione, 1970, mf. 3, verbale del 16 ottobre 1970, p. 1377]. A questo proposito, i ferrovieri comunisti avevano denunciato il «fatto che, alle spalle della base e senza che questa fosse lontanamente informata e messa in condizione di discutere, da compagni responsabili sul piano regionale, si era convenuto ad appoggi per Catanzaro Capoluogo» [Fg, Pci, Rp, mf . 70, lettera della cellula del deposito locomotive del 29 settembre 1970, pp. 69-71]. D’altronde, a distanza di anni, un dirigente reggino ha riconosciuto la propria «subalternità […] verso i compagni delle altre due province sia per il loro passato politico sia anche per la loro preparazione […] ivi compresa la posizione economica di alcuni» [Stillittano 2005, 31].
Di certo, anche la posizione unitaria dei comunisti si può ritenere condizionata dal centralismo dell’organizzazione e comunque non immune a una logica localistica, come osservò un “compagno” della federazione di Prato, in seguito a una breve permanenza reggina, riferendosi alle riserve mentali, che venivano ad esprimersi soprattutto nel gruppo dirigente del nostro Partito, riserve che avevano, secondo il mio parere, origine in una serie di equivoci non chiariti in tempo utile attorno al Capoluogo. […]. È mia opinione che ad alimentare questa riserva ed equivoco abbia contribuito anche la Direzione del nostro Partito oltre agli Organi Regionali, significativa è in proposito la posizione assunta relativamente all’articolazione della Giunta per dipartimenti, la cui sede di questi ultimi doveva essere collocata nei tre capoluoghi di Provincia. Posizione che appare non solo un obbrobrio sul piano funzionale e politico, in quanto assurdo sarebbe stato dividere l’organo esecutivo e disarticolarlo, ma anche sul piano strettamente politico: una tale posizione, invece di respingere, alimentava posizioni di carattere provincialistico [Fg, Pci, classificati, 1970, b. 199, fasc. 163, nota dell’1 marzo 1971].
Conclusioni. Il contesto in cui esplose la rivolta di Reggio del 1970 appare fortemente segnato dal dato strutturale di una diffusa domanda politica di natura territoriale, che si manifestava in modo carsico da decenni, determinando in tutta la Calabria la prevalenza di un logica localistica della politica, perlopiù promossa, sostenuta e assecondata dai partiti di governo e non sempre soltanto subita da quelli d’opposizione. A tale proposoito, i volantini e i manifesti circolanti durante la protesta reggina sono inequivocabili: chi sostenne la rivendicazione del capoluogo, ma pure chi la avversò, si rivolse sempre ai «reggini» o ai «cittadini» di Reggio, indicando la giusta via per la tutela degli «interessi della città». Non si trattava del fardello di un’arretratezza atavica né di una questione specificatamente calabrese, giacché – come rilevato da Salvatore Lupo – la rivolta di Reggio «appare ai contemporanei come il residuo di un lontano passato, in controtendenza con quanto di moderno esiste in Italia. Essa può invece essere letta come un prodotto del disintegrarsi delle rivendicazioni politiche collettive in mille rivoli settoriali, che si realizzerà nel periodo seguente» [Lupo 1994, 85]. Simili rivendicazioni «settoriali» o meglio, in questo caso, territoriali erano state generate, in diverse parti d’Italia e non solo al Sud, proprio dal timore di esserne marginalizzati ed esclusi dai progressi compiuti dal Paese nei decenni del boom [Crainz 2003, 88-94 e 470-480]. Era stato il processo di modernizzazione economica e sociale degli anni Sessanta ad alimentare ulteriormente la competizione tra territori per accaparrarsi le opportunità di sviluppo e i benefici offerti dal governo nazionale (università, investimenti industriali, ecc.) a una regione periferica e dipendente come la Calabria. Ma proprio una riforma innovativa come la costruzione di un livello di governo regionale, più ravvicinato, che avrebbe potuto soddisfare meglio tali rivendicazioni e risolvere questi conflitti, produsse il “corto circuito”. Ciò perché, come ha spiegato il sociologo Piero Fantozzi, il decentramento regionale era destinato, inevitabilmente, ad evidenziare gli squilibri strutturali interni alle regioni ed inoltre aggiungere, al tradizionale rapporto Nord-Sud, la nuova dinamica delle relazioni tra Sud e Sud. In precedenza, la forza delle rappresentanze politiche locali si era misurata soprattutto nei rapporti periferia-centro, cioè nei legami e nella capacità di contrattazione con il centro del sistema economico ed istituzionale, e solo secondariamente era venuta a confronto con le realtà circostanti. L’autonomia regionale imponeva, viceversa, un nuovo tipo di mediazione e la ridefinizione dei meccanismi politici destinati ad influire sulle decisioni istituzionali. In una realtà clientelare, dove il connubio clientela-consenso si articolava prioritariamente su appartenenze territoriali definite, diventava necessario tessere alleanze inter-locali, rivolte ad attutire le contraddizioni inevitabili in un sistema istituzionale che, altrimenti, avrebbero sviluppato alcune aree sub-regionali ai danni di altre [1993, 102-103].
La regionalizzazione, che non poteva che risultare condizionata dal contesto d’applicazione, ebbe in Calabria un effetto controproducente, poiché trasferì in quella nuova dimensione di responsabilità politica e amministrativa le molteplici tensioni territoriali già presenti, fino ad allora gestite in un rapporto verticale tra singola periferia e centro del sistema politico e istituzionale, ponendole direttamente in competizione e quindi esasperandole. Quando le rappresentanze dei territori calabresi dovettero confrontarsi direttamente aumentarono le difficoltà di giungere a una soluzione, a una mediazione pur particolaristica e clientelare, come era stato possibile per i precedenti decenni. In Calabria, come in Abruzzo, dove si svolse un’analoga contesa per il capoluogo e che sembra – in base alle prime ricognizioni scientifiche [Loreto, 2007] – un caso simile e comparabile, le conseguenze conflittuali di questo passaggio politico e istituzionale furono facilitate dalla storica debolezza dell’identità regionale e stimolate dal tenace localismo del ceto politico. In realtà, non appare esclusivo di questi contesti regionali un ruolo dei partiti «come propagatori del localismo e del particolarismo», riconducibile ad esempio alle procedure elettorali, che fanno coincidere ciascuna provincia con una circoscrizione, producendo «il controllo localistico delle candidature e dell’articolazione del voto di preferenza» e incentivando «i contatti localistici degli eletti o degli aspiranti ad un seggio nel consiglio regionale» [Lanza 1987, 210]. Il fatto che queste considerazioni siano riferite alla Sicilia, d’altronde, dimostra come il localismo possa coesistere con il regionalismo. In virtù di ciò, la rivolta di Reggio del 1970 può essere considerata il caso più estremo delle difficoltà incontrate nel creare una classe politica e un livello di governo su scala regionale, contraddistinto dall’incapacità del ceto politico calabrese di far prevalere un’ottica regionalistica su quella localistica.
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