• Riscatto e tragedia. Saidou il «calciatore» ucciso tra gli ulivi della Piana di Gioia Tauro
    06/06/2015 | Antonio Maria Mira | Avvenire

    Saidou voleva tanto giocare a calcio. Non era molto bravo ma era stato ugualmente accolto nella Koa Bosco, la squadra dei migranti della tendopoli di Rosarno che, sorprendendo tutti, ha vinto il campionato calabrese di terza categoria. Si allenava con loro anche se poi nelle partite restava sempre in panchina. Tre notti fa l’hanno trovato con la testa fracassata proprio vicino al campetto di allenamento, di fronte ai container che ospitano i migranti che vengono a lavorare nella Piana di Gioia Tauro. Non clandestini, non ‘pericolosi terroristi’ ma lavoratori, gli unici disposti a spezzarsi la schiena per meno di 20 euro al giorno tra uliveti e agrumeti. Saidou era uno di loro, «un gran lavoratore» racconta don Roberto Meduri, il giovane parroco di S. Antonio al ‘Bosco’ di Rosarno, promotore della squadra di calcio e di tante altre belle iniziative di accoglienza e integrazione. Così lontane, pur tra tante difficoltà, dagli affari di ‘Mafia Capitale’ e di altre cricche sulla pelle dei migranti. Trentasei anni, originario del Mali, Saidou era qui dal 2012 con regolare permesso di soggiorno concesso per tre anni per motivi umanitari.

     

    Lavorava ‘in nero’ come tutti qui, ma era riuscito ugualmente a raccogliere una bella sommetta. È questo il motivo per il quale è stato ucciso? Molto probabile, spiegano gli inquirenti che avrebbero anche alcuni testimoni. I suoi amici e compagni di squadra non lo vedevano da quattro giorni. Si erano preoccupati, avevano avvertito don Roberto e si erano messi a cercarlo. Ma era lì, proprio vicino a quel campetto che tanto amava. Carattere un po’ chiuso, non molto socievole, si trasformava giocando e pregando. «Era molto religioso e guidava la preghiera conoscendo bene il Corano», ricorda il sacerdote. Una normalissima storia di immigrazione (sfruttamento compreso, purtroppo), ben lontana dalle polemiche, dalle strumentalizzazioni politiche, dalle assurde fobie. Una delle tante di Rosarno, e delle innumerevoli Rosarno d’Italia. Così come la bella e intelligente accoglienza di una Chiesa di periferia, dalle porte aperte, qui come altrove quasi sempre da sola. Anche col calcio. Un calcio così lontano dagli scandali delle scommesse, della corruzione e delle infiltrazioni mafiose che hanno colpito squadre ‘italiane’ calabresi.

     

    La squadra ‘africana’ calabrese, con pochi mezzi se non il volontariato di amici italiani, non solo ha vinto il campionato sportivo ma anche quello dell’integrazione e della simpatia, giocando bene, in modo corretto (malgrado qualche coro o provocazione razzista) e sempre col sorriso. Sport che diverte, integra, promuove. E c’era spazio anche per Saidou, un po’ scarsetto, più in panchina che in campo, tutt’al più in difesa. Ma mai respinto, mai rifiutato, perché di rifiuti queste persone se ne intendono… E così si allenava, correva, faticava, come gli altri. Fino a quando la sua storia è diventata cronaca nera. Una piccola notizia, poche righe d’agenzia, brevi articoli solo sui giornali locali. Troppo piccola per finire sui grandi giornali nazionali pieni invece di polemiche. Si continua a lanciare allarmi sulla presunta invasione dei migranti, a chiudere le porte di regioni e comuni all’accoglienza, a indignarsi per qualche evento luttuoso che si ritiene provocato da ‘stranieri’. Ma per la piccola drammatica storia di Saidou, fuggito dalle violenze del suo Paese, lavoratore e aspirante calciatore, morto tra gli ulivi calabresi, nulla. Così come per chi lo aiutava a tutelare i suoi diritti.