ROSARNO – Gli oltre 2000 braccianti stranieri, quasi tutti africani, nella Piana di Rosarno vivono come uomini trasparenti: presenti quando c’è da spezzarsi la schiena in campagna ma invisibili per lo Stato e senza alcuna protezione giuridica. È l’amaro bilancio emerso dal monitoraggio autunno-inverno 2011/12, raccontato nel Dossier Radici/Rosarno di Fondazione IntegrA/Azione e Rete Radici, che ha indagato le condizioni lavorative, abitative e sanitarie senza trascurare il livello di integrazione e il rapporto con il territorio, determinato anche dal sistema politico e legislativo dentro al quale questa tipologia di lavoratori si trova a operare. Presentato ieri a Roma a Palazzo Madama e illustrato da Luca Odevaine e Francesco Ferrante, rispettivamente presidente e vicepresidente di IntegrA/Azione insieme al sottosegretario degli Interni, Saverio Ruperto, a Nuccio Barillà della segreteria nazionale di Legambiente e Cristina Riso, coordinatrice del lavoro di ricerca. Sul tavolo, il futuro di almeno 2000 lavoratori stranieri che rivendicano diritti e dignità, ma anche le problematiche di un settore, quello agricolo, in grande affanno da un paio di decenni e di un sistema politico e legislativo che sull’immigrazione presenta ancora preoccupanti lacune.
Da diversi anni Rosarno è la meta invernale degli invisibili. Nell’ultima stagione agrumicola se ne sono contati, incrociando dati della Prefettura con altre fonti ufficiali come gli ispettorati del lavoro, almeno 2000. Tutti uomini principalmente provenienti dall’Africa subsahariana (il 22% dal Mali, seguono il Senegal con il 15%, Guinea con il 13%, e la Costa d’Avorio con quasi il 12%), in un’età media di 29 anni (la fascia d’età degli over 31 è preponderante con il 46% dei lavoratori) e senza permesso di soggiorno (il 72% è irregolare contro il 28% dei regolari). L’87% di loro svolgeva lavori manuali nel paese d’origine, ma con una grande varietà professionale: a raccogliere le arance di Rosarno sono sarti, meccanici, saldatori e elettricisti. Ma anche ragazzi che nel loro paese erano studenti, poliziotti, agenti assicurativi, politici locali e soldati dell’esercito. Arrivare a Rosarno ha significato livellarsi all’unica domanda di lavoro possibile e perdere la propria specificità.
La quasi totalità della popolazione immigrata a Rosarno e dintorni, e cioè più dell’80%, ha avanzato domanda di protezione internazionale. Tra quelli che sono riusciti a ottenere il riconoscimento e dunque hanno concluso il loro iter burocratico, la maggior parte resta incastrato in un limbo giuridico che compromette la qualità della vita, fatto di attese (3,3%), dinieghi (54,2%) e ricorsi (3,3%). È provata la difficoltà degli stranieri a comprendere il complesso coacervo di leggi che li riguarda. Addirittura risulta incomprensibile la logica stessa del sistema che li obbliga in una zona grigia più che rischiosa. Inutile dire infatti, quanto una condizione del genere renda fragile un individuo, soprattutto se richiedente asilo o in attesa del ricorso, rispetto a casi di sfruttamento lavorativo e capacità personali di pianificare alternative. Il documento in loro possesso, infatti, non è spendibile per l’ottenimento del lavoro: in sostanza, non possono lavorare e dunque essere assunti regolarmente, non hanno diritti e, di conseguenza, diventano ricattabili, merce a basso costo sul mercato del caporalato, manodopera d’occasione. È proprio la burocrazia lenta e farraginosa a imprigionarli in un girone infernale dal quale non sempre è facile uscire. Spesso però il migrante partito e arrivato in Italia è l’unico che possa provvedere al sostentamento della famiglia nel Paese d’origine.
Ben il 90,7% degli intervistati lavorerebbe a nero (contro il 75% dello scorso anno), dalle ispezioni effettuate dalla Direzione provinciale del Lavoro di Reggio Calabria in tutta la Piana di Gioia Tauro, infatti, su un totale di 1082 posizioni lavorative verificate, solo il 9% riguarda cittadini extracomunitari. I salari del 55,6% dei campesinos si aggirano tra i 20-25 euro per 8-10 ore lavorative al giorno (contro il 76,37% dello scorso anno) e aumentano i lavoratori pagati “a cassetta” (37,4% contro il 10,44% dello scorso anno), con un prezzo standard di 1 euro a cassetta per i mandarini e 0,50 euro per le arance. Mediamente il 60% di loro riesce al lavorare dai 3 ai 4 giorni a settimana, ma una percentuale consistente di braccianti, e cioè il 24,7%, lavora meno di 2 giornate a settimana.
Il caporalato purtroppo resta un’abusata modalità d’ingaggio. Sebbene infatti la metà degli intervistati ha dichiarato di trovare lavoro in piazza, ben il 20% dichiara di trovare lavoro tramite un kapò migrante (quasi il 5% tramite un kapò bianco), ovvero una figura di intermediario tra il gruppo degli africani e i datori di lavoro. La figura del caporale, va detto, è cambiata nel corso degli anni per via anche del ruolo fondamentale di mediazione culturale che figure interne alle comunità straniere possono assumere per via della conoscenza della lingua italiana. I kapò provvedono a fornire l’ingaggio e spesso trattengono una percentuale della paga giornaliera che si attesta tra i 2,5 e i 4 euro a lavoratore. La figura del kapò è cruciale infatti quando si analizzano le modalità di spostamento per raggiungere il posto di lavoro: il 26% ricorre ai loro mezzi, naturalmente a pagamento.
Un migrante su due spedisce parte dei guadagni alle famiglie lasciate nei paesi d’origine. Il 37,6% dichiara di vivere con nulla o molto poco (da 0 a 50 euro a settimana), con alloggi di fortuna come i casolari abbandonati senza acqua né luce né gas e mangiando alle mense della Caritas. Sono pochi quelli che riescono a vivere con più di 100 euro a settimana (2,7%) e pochissimi coloro che vivono con 200/300 euro al mese (il 17,4%). Ne consegue, inevitabilmente, soluzioni di alloggi di fortuna in condizioni igienico sanitarie spaventose, , una dieta alimentare insufficiente e squilibrata e la mancanza di prevenzione, che aggiunte a un’attività lavorativa sfiancante, determina un precario stato di salute. Infezioni alle vie respiratorie (dovute in molti casi all’uso di sostanze chimiche nei campi), aggravate dal freddo e dal fumo dei fuochi accesi per riscaldarsi, disturbi dell’apparato gastrointestinale per via di diete povere e dall’utilizzo di acqua non potabile e malattie infettive rendono questi lavoratori affetti da un numero elevato di patologie professionali. ACCOGLIENZA. Come detto, con questi salari risulta complicato trovare un alloggio degno di questo nome e i migranti si organizzano in piccoli gruppi di 5-10 persone in abitazioni occupate, che diventano 15-20 nei casolari. Ma in centinaia affollano ghetti e vecchie fabbriche. L’accoglienza “istituzionale”, gestita dal privato sociale, non è sufficiente a coprire la domanda. A parte i 420 posti tra la tendopoli di San Ferdinando e il campo di Testa dell’Acqua, infatti, si contano circa 800 persone auto-organizzate in piccole e grandi occupazioni, tra l’ex stabilimento della Pomona, il cosiddetto ghetto di Rosarno, lo stabile dell’ex cooperativa Fabiana e il ghetto di Taurianova. Numeri che non tengono conto di quelle decine di situazioni sparse e nascoste sul territorio, impossibili da quantificare e che fanno lievitare a dismisura il numero degli alloggi informali, soprattutto nel periodo clou della raccolta (ottobre-marzo).
Il modello mediterraneo dell’agricoltura – di cui Rosarno è uno dei nodi principali – è in piedi da un paio di decenni e si fonda su lavoro nero, sfruttamento, caporalato e inclusione differenziale (cioè status amministrativi che escludono gli stranieri da diritti sociali). E per i migranti è praticamente impossibile sfuggire a questi meccanismi perversi. Un sistema che si sorregge su un’economia di rendita fondata sull’assistenzialismo e su una produzione basata sulla quantità e su un’industria che non c’è. Una fragilità strutturale che senza un cambio di rotta verso la qualità e la diversificazione, rischia di condannare all’abbandono un settore stretto tra le logiche del mercato globale e le prossime, severe direttive della Pac (Politica agricola comunitaria) europea. Basti pensare che la prima bozza della nuova Pac, in vigore dal 2015, sta prendendo in seria considerazione una radicale revisione dei premi. Se sarà confermata questa strada si passerà a sussidi che dai 1800 euro all’ettaro arrivano al massimo ai 300 circa. Dunque la vera sfida della Piana, sembra essere quella di saper andare oltre le arance, puntando su nuove colture e produzioni diversificate. Solo così si potrà garantire la vita delle aziende locali e la normalizzazione delle condizioni lavorative di chi quel settore lo sorregge con lavoro e fatica.