MARZO E’ IL MESE IN CUI LA NATURA si risveglia e tradizionalmente ripartono molte attività agricole. Per molti di noi, urbanizzati, questo evento stagionale oggi ha perso l’importanza di un tempo. Non così per i migranti, per i quali l’agricoltura è una cospicua fonte di lavoro. In larga parte stagionale, precario, spesso anche non dichiarato, ma tanto più prezioso in un momento in cui altri settori di impiego ristagnano, come l’edilizia e l’industria manifatturiera.
Secondo l’ultimo Dossier Immigrazione di Caritas-Migrantes, nel 2011 l’agricoltura ha dato lavoro a 313.724 lavoratori immigrati, per un totale di oltre 26 milioni di ore lavorate. Naturalmente escludendo il sommerso. Qui in realtà l’Italia dimostra tutta la sua lunghezza e differenziazione interna. All’estremo Nord, una regione come il Trentino Alto Adige da diversi anni impiega lavoratori immigrati come stagionali regolarmente assunti, per la raccolta di mele, uva, frutti di bosco. In provincia di Trento nel 2011 sono stati assunti nel settore agricolo oltre 15mila immigrati, quasi tutti stagionali provenienti dall’Europa orientale, rientrati in patria al termine del contratto. Al Sud non mancano territori in cui si registra un discreto numero di assunzioni regolari, come il ragusano con le sue serre. Ma in generale il sommerso e lo sfruttamento restano purtroppo la regola.
Dopo il clamore mediatico per i fatti di Rosarno del gennaio 2010, tutto sembra essere tornato come prima. Anzi, con la crisi delle fabbriche del Nord e gli arrivi dei rifugiati dal Nord Africa, sono aumentate le braccia disponibili a prezzi incredibili: le testimonianze parlano di 30, a volte addirittura di 20 euro al giorno. L’unica precauzione che i datori di lavoro adottano è quella di assumere preferibilmente lavoratori comunitari, soprattutto romeni, in modo da non rischiare denunce per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, nell’improbabile caso di ispezioni e controlli. Il Parlamento ha approvato nell’agosto 2011 una legge più severa sul caporalato, ma non si ha notizia di grande determinazione nell’attuarla. Patti non scritti tra molti interessi ne frenano l’applicazione.
Purtroppo, se arance e pomodori arrivano sulle nostre tavole a prezzi accessibili, è anche per i risparmi nei costi di raccolta, sulla pelle degli immigrati. Per contro, l’esperienza trentina ci mostra che è possibile un’agricoltura efficiente, redditizia ma anche contrattualmente corretta e umanamente sostenibile. Avremmo bisogno di fare del sistema trentino un modello per tutto il Paese.